Quei quesiti che volevano seppellire le reti del Cav: trionfò la libertà di scelta

Gli italiani votarono per la "democrazia dei palinsesti": sempre meglio poter vedere due canali televisivi in più

Quei quesiti che volevano seppellire le reti del Cav: trionfò la libertà di scelta

Sono passati trent'anni, forse troppo in fretta. È l'undici giugno del 1995 e gli italiani vanno a votare per una dozzina di referendum che sembrano piccoli crocevia della storia. Ci sono i Cobas che vogliono rivedere la contrattazione sindacale, soprattutto nel pubblico impiego, e chiedono la fine dell'oligopolio di Cgil, Cisl e Uil. C'è il partito Radicale che sogna un'Italia un po' più liberale, e chiede l'elezione diretta dei sindaci, l'abrogazione delle trattenute sindacali automatiche in busta paga, la libertà di aprire e chiudere i negozi quando e come si vuole e niente più autorizzazioni amministrative per il commercio. È un calcio alla burocrazia. C'è anche un quesito garantista, con l'idea di abolire il soggiorno obbligato per chi è imputato per reati di mafia. Gli italiani non si sono ancora stancati della democrazia diretta e quasi ogni anno c'è un referendum. Questa volta, poi, sembrano perfino più appassionati del solito. Alla fine saranno più di quindici milioni quelli che scriveranno sulla scheda un sì e un no.

Adesso in tanti non lo ricordano, come se quella giornata fosse inutile o scontata, ma quelli furono soprattutto i referendum della televisione. Tre quesiti si proponevano, di fatto, di seppellire le reti di Berlusconi, a costo di strappare ai cittadini italiani la libertà di telecomando. È lo Stato che decide cosa si può e deve vedere in tv. È uno Stato pedagogico e un po' bacchettone. L'idea è di riscrivere la legge Mammì che dopo quindici anni di sostanziale far west aveva regolato il settore radiotelevisivo. D'Alema motteggiava: «La Mammì? Va abbattuta come le statue di Stalin». Qui è la sinistra a raccogliere le firme, con un comitato composito fatto da associazioni di volontariato, ambientaliste (Legambiente) e culturali (le cattoliche Acli, la post-comunista Arci), e i partiti di sinistra solo sullo sfondo. Il decimo quesito, il più importante, intende ridurre a una sola le reti tv nazionali che possono essere di proprietà di un singolo soggetto. L'undicesimo vuole limitare la raccolta pubblicitaria da parte di una concessionaria a un massimo di due reti televisive nazionali. Il dodicesimo rilancia la lotta di qualche anno prima, al grido di «non s'interrompe un'emozione», per impedire gli spot nei film. Tutte anime belle. È a loro che Pannella risponde, quasi per dispetto, con il quarto referendum che tira in ballo la televisione pubblica. È la «privatizzazione» della Rai, o qualcosa di simile.

Quel giorno votammo per la libertà di scegliere tra Rete 4 e Rai 2. Ora c'è un libro, un saggio meraviglioso, che torna a raccontare questa storia. Il titolo è Meglio poter scegliere (Mondadori). L'autore è Alberto Mingardi che non solo si interroga sulle conseguenze di quel «no», ma da intellettuale geniale riflette sulla sconfitta degli intellettuali e sulla miopia dei chierici. È stata una delle ultime grandi vittorie liberali, con Silvio Berlusconi che viene convinto a restare in panchina, lasciando spazio ai volti delle sue televisioni. Silvio è perplesso. È, dice ai suoi, come avere Maradona e non schierarlo. Sarà la mossa vincente.

Mingardi racconta una disfida che segna il passo del tempo che verrà. Di là c'era un pezzo d'Italia che si sentiva investita dalla missione pedagogica di raddrizzare le menti. Il fronte del «Sì» era guidato da tre facce granitiche della sinistra seria: Massimo D'Alema, Sergio Mattarella, Fausto Bertinotti. Erano lì per dire che non si può lasciare il telecomando in mano alla plebe, che i film non si interrompono con pannolini e detersivi, che la pubblicità è il peccato originale della televisione commerciale. Dall'altra parte, a difesa del «No» c'era la televisione così com'è: Iva Zanicchi, che sa di essere popolo, Rita Dalla Chiesa, che porta il lutto e la leggerezza di un'Italia televisiva e familiare, Enrico Vanzina, con i suoi fogli sulle ginocchia e i capelli alla John Belushi. Poi Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, che si schierano con finto candore: «Noi votiamo no. Perché dovremmo avere due canali in meno?». È la democrazia dei palinsesti, la ribellione del prime time. È il diritto perfino di guardare stravaccati su un divano programmi mediocri senza che nessuno ti faccia la predica e ti faccia sentire indegno e sbagliato. Gli italiani, quella volta, non votarono per Berlusconi, ma per se stessi. Molti faticarono a capirlo e ancora adesso mostrano disprezzo per la democrazia selvaggia e depravata. Se durante la campagna elettorale il risultato sembrava incerto, il responso delle urne è invece piuttosto chiaro: sulla Rai con capitali privati vince il sì (ma non accadrà nulla), sull'assalto alle tv private invece il no raccoglie circa il 56% su ogni quesito, non un plebiscito ma un segnale politico importante a favore di Berlusconi.

Fu una sconfitta da dimenticare, dannata e senza memoria, perché persero quelli che pensavano di sapere cos'è meglio per tutti. Perse un'idea di Paese costruita su un'élite che guarda il Tg3 e ride solo con la compagnia di giro certificata. Perse l'idea che la cultura passi solo per Rai 3, mentre la pubblicità è contaminazione e disordine. Ci sono sconfitte che fanno male e vittorie che non vengono sbandierate. È così che il referendum del '95 non sembra quasi lasciare traccia. Lo rimuove la sinistra, lo ignora la destra. Solo che lì si è giocata una partita importante.

Se avessero vinto i sì Berlusconi, già segnato dal ribaltone di Bossi e dalla vittoria fresca di Prodi, probabilmente avrebbe fatto un passo indietro. Avremmo avuto un'Italia diversa. Non date per scontato, come giurano giacobini e puritani, che sarebbe stata migliore.

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