
Una sterzata verso il populismo e l'ingovernabilità. I cechi sono forse impazziti? Ma no, hanno votato in parte pensando al portafoglio, in parte guidati da paure e spinte xenofobe anche eterodirette (leggi: da Mosca, tramite "disinformatsia" via TikTok e a simili) e solo in una parte minoritaria seguendo la fiaccola della stabilità e della continuità in una salda collocazione internazionale del loro Paese all'interno dell'Ue e del fronte a sostegno dell'Ucraina aggredita dalla Russia. E adesso Andrej Babis, il vincitore annunciato di queste elezioni attese con ansia non solo a Praga, ma anche a Bruxelles, a Mosca e a Washington, cercherà, forte del suo 34,6% dei voti, di formare un esecutivo. Le sue carte non sono però del tutto in regola. E non solo per il suo lontano passato di informatore dei servizi segreti comunisti cecoslovacchi Stb, ma anche perché dovrebbe cercarsi alleati improbabili di destra radicale (gli xenofobi della Spd, guidati peraltro da un giapponese, Tomio Okamura) o protestataria (il partito degli automobilisti che ha sfiorato il 7%).
Soprattutto, Babis dovrà superare l'ostacolo del presidente della Repubblica Petr Pavel, un ex generale fatto di una pasta molto diversa da quella dell'italiano Vannacci che strizza l'occhio a Vladimir Putin, al quale spetta in base alla Costituzione il compito di designare un incaricato alla formazione del governo. Pavel ha già detto che la sua priorità sarà la salvaguardia della collocazione europea e occidentale della Cechia.
Il dettaglio dei risultati dipinge un quadro confuso e scoraggiante. Il rischio che Praga si ritrovi con un governo raffazzonato e orientato "alla Orbán" è reale e ovviamente preoccupante. La maggioranza liberale e centrista che sostiene il governo europeista e filo-Kiev dell'attuale premier Fiala è stata fortemente punita dagli elettori, e supera di poco il 23% (tocca il 34% con gli alleati dello Stan e un teorico 42% se si sommassero i libertari Pirati). Mentre il populista Babis, che ha puntato tutto sull'ansia per il carovita, attribuendolo strumentalmente al "folle e costoso sostegno ceco all'Ucraina nazista" e soffiando sul fuoco della xenofobia verso i 400mila profughi ucraini accolti in un Paese che non arriva agli 11 milioni, è volato ben oltre i sondaggi che lo davano al 30. Secondo lui, tutto si risolverebbe ricucendo i rapporti con Mosca "in modo ragionevole". Esattamente quello che il presidente Pavel rifiuta come un irresponsabile salto nel vuoto nel momento in cui Putin devasta l'Ucraina nel perfetto disinteresse dei pacifisti pro-Pal anche nostrani e minaccia l'Europa con la sua guerra ibrida.
Colpisce, in un contesto internazionale allarmante come l'attuale, lo sciupìo di voti verso partiti di protesta sterile o ultraradicale: i Pirati avvicinano il 9%, gli Automobilisti organizzati sfiorano il 7, l'ultradestra improvvisata dell'Spd manca di poco l'8, mentre i comunisti travestiti della lista Basta! restano delusi sotto la soglia del 5%.
Cosa succederà adesso? Il pallino è in mano al presidente Pavel, che difficilmente potrà negare a Babis che si proclama tra l'altro grande ammiratore di Donald Trump una chance di provare a formare una maggioranza.
Per coronare questa ambizione, il leader dei populisti anti Ue, anti Ucraina e critico della stessa Nato si dice indignato da chi lo descrive come pronto a rigettare la Cechia nella sfera d'influenza di Mosca a 57 anni dall'irruzione a Praga dei carri armati sovietici e a 36 dal "magico Ottantanove" in cui Vaclav Havel fece crollare il regime comunista. Ma questa è storia lontana, troppa acqua sembra passata sotto i ponti sulla Moldava: l'amara verità è che, per molti cechi di oggi, Bruxelles e Mosca pari sono.