
Persino il calendario cospira contro i magistrati e a favore della separazione delle loro carriere, tema approdato al Senato nel giorno in cui Gaia Tortora figlia di Enzo (e i Radicali, la Fondazione Einaudi, associazioni varie) appoggiava una rosa sulla tomba del padre non per riportarne il caso in piena attualità, ma per ricordarci che non ha mai smesso di esserlo.
Paese strano, quello in cui occuparsi del caso Tortora, un tempo, significava fare gli interessi della camorra, e condannare l'abuso del carcere preventivo, poi, significava riabilitare Craxi, mentre ogni sillaba protesa al cambiamento della giustizia, ancora due anni fa, era additata come scusa per difendere il Berlusconi defunto.
Solo la magistratura sembra invero sempre quella, mentre dei camerieri in livrea (parrebbero dei giornalisti) ne servono il verbo anche se non ricordano, neppure loro, quali funzioni, anzi quali carriere (mai separate) abbiano poi fatto i magistrati protagonisti del caso Tortora.
Aiutiamoli. Felice Di Persia diventò membro del Csm e procuratore capo a Nocera inferiore, Lucio Di Pietro diventò procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e Procuratore generale a Salerno, Luigi Sansone diventò presidente di Cassazione, Orazio Gattola presidente di sezione a Torre Annunziata, Diego Marmo procuratore generale al tribunale di Torre Annunziata: e chi erano, costoro? Pm? Giudici? Giudici istruttori? Erano magistrati, erano una sola e indistinguibile corporazione. Alcuni di loro denunciarono anche giornalisti e avvocati che avevano promosso (vanamente) una causa civile contro di loro. Le ispezioni ministeriali promosse dall'allora ministro Sebastiano Vassalli non diedero risultati. Il plenum del Csm votò a maggioranza per l'archiviazione di ogni accusa. Non furono dei pm o dei giudici a rimanere impuniti: fu una corporazione. Il referendum promosso dopo il caso tortora, quando nel 1987 gli italiani votarono a favore della possibilità di punire le toghe per «colpa grave», rimase lettera morta. Nel giugno 2022, quando si tentò di riproporre quel referendum ma non si raggiunse il quorum, a votare per il cambiamento c'era anche un certo magistrato in pensione, Carlo Nordio, oltreché dei giornalisti pochi - tra i quali Gaia Tortora.
Paese strano, quello in cui la giunta di Genova, nel 1994, respinse la proposta di dedicare una via a Tortora perché «non è abbastanza conosciuto a livello nazionale», disse l'assessore del Pds Paola Balpi: sarebbe stata «un attacco generalizzato ai giudici, continuativo della strategia berlusconiana», disse il capogruppo pidiessino Ubaldo Benvenuti. Altro aneddoto: il 13 settembre 2013, proprio alla Festa di «Atreju» dell'acerbo Fratelli d'Italia, il collega Antonello Piroso riparlò del caso Tortora in un dibattito presenziato dal sottoscritto e da Marco Travaglio e dal magistrato Rodolfo Sabelli: il refrain fu che «risaliva a 30 anni fa, quando c'era era il vecchio Codice», e Travaglio precisò testualmente che «i guai della giustizia sono altro dalla magistratura». Sono altro.
Bisognerebbe rileggere interamente la miglior biografia mai scritta sull'argomento («Dagli applausi agli sputi» di Vittorio Pezzuto) e farla leggere anche a colleghi, avvocati, magistrati, cittadini e persino scolari che credono di sapere e invece non sanno, credono di ricordare e invece non ricordano, credono che ogni tanto succeda ancora qualcosa, nel mondo della malagiustizia italiana, e invece è già successo tutto.Non sono i fautori di una vera riforma della giustizia a riparlarci, oggi, del caso Tortora: era il caso Tortora, quasi mezzo secolo fa, a scongiurarci di fare una riforma che ancora attende.