Europa

Al-Sisi alleato inevitabile. È lo scudo all'estremismo

Il suo regime in Egitto ha impedito il dilagare di Hamas e la diffusione del terrorismo. E ha bloccato l'immigrazione

Al-Sisi alleato inevitabile. È lo scudo all'estremismo

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Chi non ha peccato scagli la prima pietra. Giorgia Meloni potrebbe ben dirlo. A quel punto di mani alzate e pietre pronte a volare ne vedremmo ben poche. Probabilmente nessuna. Perché se la colpa è quella di anteporre ai diritti umani l'interesse nazionale e gli affari con l'Egitto di Abdel Fattah Al-Sisi la lista diventa assai lunga. Su questo punto i «soloni» a Cinque Stelle sono i primi a dover tacere. Anche perchè nel giugno 2020 il loro leader Giuseppe Conte non esitò ad autorizzare l'accordo che sancì la vendita all'Egitto di due fregate Fremm costruite dal gruppo Fincantieri.

Il primo a scordare l'assassinio di Giulio Regeni è stato, invece, un premier targato Pd. Nel settembre 2017 - 19 mesi dopo l'uccisione del ricercatore italiano - Paolo Gentiloni approfittò dell'Assemblea Onu a New York per organizzare un incontro con il presidente egiziano. Mario Draghi da Presidente del Consiglio evitò di stringergli la mano, ma quando - nel 2022 - si trattò di sopperire agli acquisti sul fronte russo non si fece problemi a chiedere all'Eni ingenti acquisti di gas egiziano. Le anime belle, comunque, non abitano neppure a Parigi, Berlino o Bruxelles. Nel 2020 pur di vendergli una trentina di jet Rafale il presidente francese Emmanuel Macron invitò a Parigi il presidente egiziano e gli appuntò sul petto una Legion d'Onore. Salvo poi spiegare ai suoi connazionali che i diritti umani sono poca cosa rispetto alle esigenze politiche.

Del resto neppure due capofila del socialismo europeo come il cancelliere tedesco Olaf Scholz e l'Alto Rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell si sono fatti problemi a stringere la mano ad Abdel Fattah Al-Sisi. Anche perchè, per quanto ci racconti Elly Schlein, da Bruxelles a Washington (pronta anche con Joe Biden a riconoscergli ogni anno un miliardo e 300 milioni di aiuti militari) tutti sanno che il presidente Al-Sisi è un male non solo necessario, ma quasi indispensabile. I motivi sono innumerevoli. Pensate cosa sarebbe l'Egitto se la presidenza fosse ancora nelle mani di Mohamed Morsi, l'esponente della Fratellanza Musulmana deposto nel 2012 da Al-Sisi e fatto morire in carcere. I capi di Hamas, diretta filiazione della Fratellanza Musulmana in quel di Gaza, avrebbero un complice nell'adiacente provincia del Sinai e un alleato capace di affiancare il Qatar a livello internazionale. E Israele, invece di poter contare sulla mediazione dell'Egitto, dovrebbe guardarsi da un nemico popolato da oltre 109 milioni di musulmani.

D'altra parte noi europei e il resto del mondo dovremmo far i conti con un potenziale «germinaio» del terrorismo internazionale. Un «germinaio» che negli anni passati ha già diffuso a larghe mani il suo morbo. Tra le eccellenze del terrorismo «made in Egitto» si contano, infatti, personaggi come Ayman Al Zawahiri, l'ideologo di Al Qaida succeduto a Osama Bin Laden, e Mohamed Atta il pilota capofila dei 19 attentatori dell' 11 settembre. Ma Al-Sisi non rappresenta solo uno scudo al terrorismo. Stando ai dati dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati l'Egitto ospita oggi più di mezzo milione di migranti provenienti da Sudan, Siria, Eritrea, Etiopia, Yemen, Somalia ed Iraq. Il problema, ben chiaro non solo a Giorgia Meloni e ad Ursula von der Leyen, ma a tutti i leader europei, compresi quelli socialisti, è che l'Egitto è un paese a due porte. Un paese in cui si entra dalle porose frontiere di un Sudan in guerra e si esce da quelle altrettanto incontrollabili della Libia.

Ma tutto quel che si muove in direzione di Misurata, Bengasi o Tripoli rischia di approdare a Lampedusa e, subito dopo, nel resto dell'Europa. Soprattutto se non si garantiscono al presidente egiziano i capitali indispensabili per arginare quei flussi. E i migranti non sono neppure il rischio peggiore. A rendere Al-Sisi ancor più indispensabile per l'Occidente ci stanno pensando in queste settimane i ribelli Houthi foraggiati da Teheran. I loro missili, lanciati con l'intento dichiarato di colpire i commerci diretti in Israele, affondano in verità un Egitto costretto a rinunciare al 40 per cento di quei transiti da Suez che gli garantiscono ogni anno entrate per oltre 9 miliardi di euro.

Perdite che senza un uomo forte al potere e senza aiuti internazionali rischiano di trascinare nel caos non solo l'Egitto, ma anche il resto del Medio Oriente e le sponde del Mediterraneo.

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