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Il Tar dice basta ai blitz delle Ong. "È il Viminale a stabilire il porto di sbarco"

Speravano in un giudice amico pronto a legittimare il dogma secondo cui il porto di sbarco dei migranti deve essere il più vicino alla nave Ong che li soccorre in mare. Ma gli è andata male

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Speravano in un giudice amico pronto a legittimare il dogma secondo cui il porto di sbarco dei migranti deve essere il più vicino alla nave Ong che li soccorre in mare. Ma gli è andata male. A differenza di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3, scagionata e rimandata a casa dopo aver speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, Msf (Medici Senza Frontiere) stavolta fa i conti con una sentenza del Tar del Lazio che dà piena ragione al nostro Ministero dell'Interno e liquida come prive di valore giuridico le sue ragioni.

Al centro del dibattimento, chiuso con sentenza lunedì scorso, c'erano due ricorsi sporti contro il nostro Ministero dell'Interno accusato di aver illegittimamente assegnato alla nave Geo Barents affittata da Msf, il 7 gennaio e il 23 gennaio scorsi, i porti di sbarco di Ancona e La Spezia. Due destinazioni che, a detta dei legali di Msf non potevano, stando alle norme internazionali, venir decisi dal Viminale. Ma soprattutto non potevano venir assegnati in quanto lontani dalla zona di soccorso e inficiati dal sospetto di venir scelti per scaricare l'assistenza ai migranti su due città in mano all'opposizione.

Ma il Tar del Lazio ha fatto «tabula rasa» di argomentazioni e sospetti condannando la Ong al pagamento delle spese di giudizio. Partiamo dall' accusa secondo cui - in base alla Convenzione di Amburgo sui soccorsi in mare - la scelta del porto di sbarco sicuro (Pos - Place of Safety) non spetterebbe al Ministero dell'Interno, ma a quello delle Infrastrutture e alle Capitanerie di Porto. Una tesi definita inconsistente per due ragioni. La prima è che solo il Viminale è in grado di valutare il Pos più adeguato in base al totale degli interventi di soccorso e al numero di migranti da soccorrere. La seconda è che solo il Ministero dell'Interno può disporre i più appropriati servizi di assistenza sanitaria e di sicurezza.

Ma la batosta più significativa riguarda uno dei dogmi impostici dalle Ong ovvero il concetto che il porto di sbarco debba inevitabilmente essere il più vicino alla nave responsabile del salvataggio. Una tesi fatta a pezzi dalla sentenza che citando la normativa internazionale sottolinea come la nozione di Pos non coincida necessariamente con quella di porto più vicino alla zona di soccorso. Tanto che - a detta del Tar - il Pos può non trovarsi necessariamente sulla terraferma e venir rappresentato, in via temporanea, da una nave o da una struttura galleggiante adatta a soccorrere i naufraghi. Come dire che la Geo Barents - un bestione di 77 metri capace di operare in ogni condizioni meteo - rappresentava già un «luogo sicuro».

Secondo i giudici del Tar, inoltre, le norme internazionali non evocano un concetto di «vicinanza» fra luogo di soccorso e luogo di sbarco, ma un concetto di ragionevolezza. Il «Pos» va scelto, insomma, tenendo conto della situazione concreta dei migranti, degli aspetti logistici relativi alla gestione dei flussi migratori, alla necessità di non congestionare determinati territori e di assicurare accoglienza, identificazione oltre ad eventuali espulsioni e rimpatri.

Ma la ciliegina sulla torta, capace di far pezzi le ragioni delle Ong, arriva nella parte finale in cui si spiega che l'Italia non aveva alcun dovere di offrire un Pos. Quel dovere secondo il Tar spettava alla Libia, competente per la zona Sar, o alla Norvegia in quanto paese di bandiera della Geo Barents.

Un sentenza che se diventasse giurisprudenza cancellerebbe gli sbarchi nei nostri porti.

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