"Tremavo, ma ero deciso a ucciderlo"

Così l'attentatore ricostruì l'agguato al leader del Partito comunista italiano

"Tremavo, ma ero deciso a ucciderlo"

Arriviamo al Dopoguerra.

«Io ero un liberale, ero corrispondente per il settimanale siciliano dell'Uomo qualunque, il Giornale dell'isola, ormai ero uno studente fuoricorso. E mi scontravo quotidianamente con i comunisti. Minacciavano, ingiuriavano, profanavano. Ricordo i comunisti di Adrano, un paese del Catanese. Puntarono mia sorella Concettina, che oggi ha 82 anni, con parole spaventose: l'appenderemo a un palo e la violenteremo. Poi ci fu un altro episodio».

Che cosa accadde?

«Nel corso di un comizio, un certo Proietti sbottò interrompendomi: Ma che dice questo cretino?. Mio padre, che era di fianco, lo mandò ko con un ceffone. Questo era il clima nel '48».

Così?

«Nel giro di 2 o 3 mesi elaborai l'idea. Tagliare alla radice il problema. Uccidere il Migliore, Palmiro Togliatti».

Possibile?

«Feci tutto da solo, anche se poi mi hanno cucito addosso complotti, mandanti, trame misteriose. Persino la proprietà di una fabbrica di corde in Argentina».

Liberale, ma fino a un certo punto.

«Ero giovane. Ero esasperato. Ritenevo i comunisti responsabili della morte di molti italiani, eliminati dai partigiani rossi. In quei giorni, l'Italia era a un bivio drammatico: l'ingresso nell'Alleanza Atlantica o l'approdo nel Cominform».

Lei davvero pensava di risolvere il problema uccidendo il capo del Pci?

«Sì. E non mi preoccupavo delle conseguenze personali. Comprai la pistola, una Smith calibro 38, al mercato nero per 250 lire. Poi per 25 lire acquistai in armeria cinque proiettili. Dissi che mi servivano per il tirassegno. Infine partii per Roma».

Come organizzò l'agguato?

«Decisi di colpire a Montecitorio. Operazione non facile: all'ingresso fui bloccato. Mi serviva un pass».

Chi glielo diede?

«Mi ricordai dell'onorevole Francesco Turnaturi, catanese di Randazzo, democristiano, che avevo conosciuto fra un comizio e l'altro. Lui mi fece trovare tre pass».

Ma voleva ammazzare Togliatti dentro Montecitorio?

«Non avevo un piano preciso. Dunque, dalla tribuna lo vidi: vidi lui, vidi Pajetta, il numero due del partito, vidi anche tanti altri, compreso De Gasperi che però non mi interessava. All'improvviso Togliatti usci, bruciandomi sul tempo. Mi accorsi però che se n'era andato da una porticina laterale che dava su via della Missione. Il terzo giorno mi appostai fuori».

Erano le 11.40 del 14 luglio 1948, ricorrenza della Bastiglia.

«Una coincidenza casuale. Tremavo. Forse mi tremava anche la mano. Sapevo di avere cinque colpi a disposizione, ero determinato, ormai avevo deciso».

Alle 11.40 la porticina si apre: esce la Iotti e dietro di lei il Migliore.

«Scorgo lei, poi lui. Sono sui gradini, io a tre- quattro metri. Sparo: lo prendo alla costola, poi al polmone. Lui cade e mentre si accascia sparo ancora. Un colpo a vuoto, il quarto entra nella nuca. La Iotti si butta su di lui e grida: hanno ucciso Togliatti, hanno ucciso Togliatti, i deputati cominciano a uscire a frotte dal Parlamento, io non capisco più niente.

Mani forti mi afferrano salvandomi dal sicuro linciaggio: è il capitano dei carabinieri Antonio Perenze che poi firmerà la relazione sulla morte, misteriosissima e controversa, del bandito Giuliano».

Intanto il Migliore, che non è morto, operato d'urgenza si salverà.

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