Trent'anni di illegalità e abusi protetti da premier, ministri e dai soliti salotti radical chic

Da Prodi a Napolitano, da Vendola a Fo: sempre con chi calpesta lo Stato di diritto

Trent'anni di illegalità e abusi protetti da premier, ministri e dai soliti salotti radical chic
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Il Leoncavallo è la più longeva sospensione della legalità che Milano abbia mai conosciuto, e il fatto che per trent'anni sia stato protetto da presidenti del Consiglio, ministri, premi Nobel, sindaci, consiglieri comunali e interi partiti dimostra che non era un abuso qualsiasi bensì un sacrario della doppiezza italica. Accade mentre dei presunti vizi formali stanno bloccando dei grattacieli e trascinando in Procura imprenditori e tecnici: gente che ha rispettato la legge in un modo che, secondo alcune pm, è sbagliato. È giusto, invece, occupare un edificio senza pagare affitti, senza licenze e senza concessioni: perché è un patrimonio culturale. La skyline milanese che ha abbellito Milano, invece, è un patrimonio e basta.

Il Leoncavallo nasce nel 1975 in via Leoncavallo 22 come capannone occupato; cresce come luogo di controcultura tra canne libere, happening e slogan barricaderi. Nel 1989 il sindaco socialista Paolo Pillitteri manda le ruspe, ma il centro rinasce dopo pochi giorni. Nel 1994 c'è lo sgombero forse più famoso, ordinato dal sindaco leghista Marco Formentini: le immagini sembrano drammatiche ma anche in quel caso la rinascita è immediata. Inizia la farsa: gli sgomberi non sono sgomberi, le chiusure non sono chiusure, a ogni ruspa corrisponde un corteo e a ogni corteo corrisponde un politico che difende l'illegale.

Romano Prodi, candidato premier, va a fare visita al Leoncavallo nel 1994, come a ricevere l'unzione antagonista. Giorgio Napolitano, ministro dell'Interno, nel 1996 spiega che "dialogare è meglio che reprimere", l'anticamera della resa. Fausto Bertinotti, in Parlamento, lo definisce "patrimonio della città". Nichi Vendola ci vede "un luogo di libertà" e "un laboratorio di democrazia diretta". Persino Vittorio Sgarbi dichiara che chiuderlo sarebbe "un delitto contro la cultura". Il sindaco Giuliano Pisapia parla di "ricchezza per Milano" e il primo cittadino attuale, Giuseppe Sala, nel tempo l'ha canonizzato (come pure ieri) perché il centro "fa parte della storia di Milano". Neanche Gabriele Albertini ebbe mai il coraggio di andare a fondo. Letizia Moratti promise e promise, poi si arrese. Infiliamoci anche Achille Occhetto ("un'esperienza da ascoltare") e l'immancabile Dario Fo, che parlò di "spazio di cultura popolare". Una gara di cazzate durata trent'anni.

Nel 1999, dopo l'ennesimo sgombero, il Leoncavallo si trasferisce in via Watteau, in uno stabile della famiglia Cabassi, immobiliaristi storici. È lì che si consuma il capolavoro: i Cabassi, proprietari, non pretendono nulla: e siccome non si deve pagare nulla, significa che non si può sgomberare. Da allora il centro è un edificio formalmente privato ma a gestione collettiva e con nessun affitto e nessuna concessione, ma con protezioni politiche e istituzionali. Spiegatelo a uno straniero.

La sinistra locale intanto ha sempre fatto la guardia. Basilio Rizzo, eterno presidente del Consiglio comunale, era il custode morale; Luciano Muhlbauer, consigliere di Rifondazione, era una sorta di delegato permanente a tutti i centri sociali; Luca Gibillini di Sel si definiva garante politico del Leoncavallo. C'erano loro e molti altri, una pattuglia pronta a garantire delle mobilitazioni istituzionali a ogni minaccia di rispetto della legge.

Dentro intanto scorrevano soldi: concerti di star più e meno internazionali (Manu Chao, Subsonica, Rage Against the Machine, Elio e le Storie Tese, Frankie Hi-Nrg) con migliaia di biglietti venduti e contanti incassati: i bar interni non hanno mai conosciuto licenze o scontrini, e quando la Guardia di Finanza lo rilevò, nel 2007, si parlò di "accanimento burocratico". Nel 2001, invece, la Digos trovò caschi e bastoni, ma erano "strumenti di autodifesa". Nel 2010 i militanti furono ripresi a lanciare oggetti contro i poliziotti, ma erano stati "provocati". Nel 2015 alcune intercettazioni rivelarono delle spartizioni tra gli organizzatori: più che un'autogestione collettiva, un cda in nero.

Il resto è slogan e auto-celebrazione: "Né Stato né mercato: autogestione", "Leoncavallo ovunque, sgomberarlo è impossibile", "Occupiamo tutto", "Zona temporaneamente autonoma". Temporaneamente da trent'anni.

Per la sinistra è

stata una patente di radicalità, per il centrodestra un paraocchi per non rischiare guerriglie, mentre per i sedicenti intellettuali era un rifugio per progressismi da aperitivo. Tutti invitati, tranne lo Stato di diritto.

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