
Ieri è stato un giorno importante per la Mostra del cinema di Venezia. Sono stati presentati, uno a fianco dell'altro, due film che, per ragioni diverse, hanno assunto un significato simbolico. Il primo è In the Hand of Dante dell'americano Julian Schnabel con Gal Gadot, l'attrice di cui i militanti pro Palestina hanno chiesto l'esclusione dal tappeto rosso. Il secondo è The Voice of Hind Rajab della tunisina Kaouther Ben Hania. Racconta la morte di una bambina di sei anni rimasta intrappolata nella Gaza distrutta dai carri armati israeliani. The Voice of Hind Rajab è un'opera dura ma asciutta, senza proclami e momenti programmatici. I 24 minuti di applausi ne fanno il più serio candidato al Leone d'oro. Rappresenta la disperazione di Gaza meglio di quanto abbiano fatto regista e cast in una conferenza stampa dove qualcuno ha provato un filo di disagio davanti alla mancanza di una citazione per i ragazzini trucidati da Hamas il 7 ottobre. Erano innocenti anche loro. Ma di loro non si è parlato mai. Sul tappeto rosso e in sala, nelle occasioni ufficiali e nelle conferenze stampa, nei cortei e sui media si è parlato molto di Palestina, nulla di Israele. Eccezione fatta per la incredibile manifestazione dei centri sociali in cui si è urlato di Israele ma per chiederne la cancellazione dalla cartina geografica. Si è prodotto un rumore continuo di commenti, condanne, prese di posizione, mentre la voce diretta dei protagonisti, in questo caso quella israeliana, è scomparsa o è stata ridotta a frammenti filtrati. Così non resta più un dibattito, ma una grottesca babele: tutti parlano di Israele, tranne Israele; tutti parlano di Israele, ma nessuno con Israele. La parte più contestata, che avrebbe molto da spiegare, è stata l'unica assente o quasi. Alla fine, ciò che è stato taciuto pesa tanto quanto è stato detto. Israele è stato il convitato di pietra. Insieme con Hamas, innominabile e innominata, come se non esistesse, d'altronde ammetterne l'esistenza implicherebbe dover ragionare un po' di più prima di riempirsi la bocca di parole ispirate ai più alti principi morali.
L'arte ha fatto il suo dovere. Limitandoci all'essenziale, Frankenstein ha spiegato la diversità meglio di un trattato di antropologia; A House of Dynamite ha mostrato il desiderio irrefrenabile di far scoppiare una guerra mondiale; Orphan ha denunciato gli strumenti dell'oppressione comunista; After the Hunt ha fatto a pezzi il "discorso" politicamente corretta; lo stesso The Voice of Hind Rajab si è rivelato una testimonianza del dolore inflitto agli innocenti nel corso di un conflitto. Tutto bene. Gli artisti hanno fatto gli artisti. La Mostra ha fatto la Mostra, prendendo posizione contro la strage di Gaza ma respingendo al mittente ogni ipotesi di censura. Pessimo invece il circo di contorno. Le dichiarazioni avventate, tanto per non arrivare secondi nella speciale classifica degli indignati. Gli editoriali in favore del boicottaggio, e fa niente se ci va di mezzo la libertà d'opinione. Le lettere-appello rivelatesi poi una truffa nei confronti dei firmatari frettolosi di essere conformisti. Il cinismo osceno di chi a favore di camera alza il pugno e dice "Free Palestine" ma al bar rivela: "Beh, Israele non ha tutti i torti".
Le conferenze stampa con domande dalla risposta incorporata: "Hanno ragione i palestinesi o hanno torto gli israeliani?". Alla fine, nella foto di gruppo, prima di tornare a casa, manca soltanto Israele. Non è un'assenza da poco.