"Scrivere? È come essere prigionieri in un museo di notte"

L'autrice Leila Slimani racconta l'esperienza "rinchiusa" da sola a Punta della Dogana a Venezia

"Scrivere? È come  essere prigionieri in un museo di notte"
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Il profumo che i fiori hanno di notte (La nave di Teseo, pagg. 112, euro 16) è quello dei gelsomini, e Leila Slimani lo sentiva invadere le sue narici le sere in cui rientrava di nascosto a casa sua, a Rabat, quando ancora viveva in Marocco. Il suo nome, Leila, significa "notte". E una notte è quella che la scrittrice ha trascorso, qualche anno fa, chiusa nel museo di Punta della Dogana, a Venezia, e da cui è scaturito questo libro breve, con cui ci porta un po' nel suo Marocco, un po' a Venezia e un po' a Parigi, dove vive ormai da vent'anni, e dove è riuscita a fare della scrittura il suo mestiere (ha anche vinto un Goncourt per lo sconvolgente Ninna nanna).

Leila Slimani, perché questo libro, che ha per protagonista la scrittura stessa?

"Quella notte a Venezia chiusa nel museo è stata un momento per cercare di comprendere meglio la mia stessa vita, di capire perché ho deciso di diventare una scrittrice e di trascorrere così tanto tempo da sola nel mondo dei romanzi, dove le altre persone non esistono. La letteratura è spesso fatta di solitudine, frustrazione e sofferenza".

La letteratura - scrive - richiede disciplina.

"Quando scrivi sei il capo di te stesso e qualche volta non è facile convivere con questo capo... Ho letto moltissimi diari di scrittori, da Virginia Woolf a Stendhal, e tutti descrivono come questa sofferenza, quando si scrive un libro, sia la cosa più importante, al confronto della quale tutto il resto del mondo non conta molto".

Come è diventata scrittrice?

"Ho sempre scritto anche da ragazza, ma come una ragazza: cose stupide, non buone. Mi ci sono voluti anni per scrivere qualcosa che mi piacesse e considerassi di valore. Se vuoi essere uno scrittore devi accettare l'idea del fallimento: quando scrivi fallisci continuamente, scrivi e riscrivi e ricevi moltissimi rifiuti...".

Perché le serviva un "altrove" per scrivere?

"Quando ho lasciato il Marocco è stato difficile: ero giovane, Parigi era enorme, ero spesso da sola e in ansia, però allo stesso tempo è stato bellissimo. Ho dovuto reinventare me stessa per diventare una persona nuova. I miei genitori mi avevano detto: sei libera di fare quello che vuoi. E una donna libera deve decidere quello che vuole fare, perché la tua identità è ciò che vuoi fare".

Nel museo era rinchiusa come in prigione, da un certo punto di vista?

"Volevo provare a riflettere sulla mia decisione di scrivere e, da scrittore, devi proprio chiuderti in te stesso: serrare la porta, non lasciare entrare nessuno, rimanere da solo e dimenticare ciò che sta fuori. Allo stesso tempo ero consapevole di una analogia tra la mia decisione e la vita di mio padre, che era stato imprigionato quando ero giovane; e questa esperienza a Venezia, meravigliosa e misteriosa insieme, è stata il primo passo per cercare di capire che cosa lui abbia provato mentre era in cella, benché sia impossibile. E in quella notte ho sentito che era lì con me, che stavo dialogando con il fantasma di mio padre".

Che legame c'è fra scrittura e libertà?

"Una relazione fondamentale. Decidere di diventare uno scrittore è decidere di essere libero. La libertà è il cuore della scrittura: inventare è raccontare senza essere schiavi della realtà, è la possibilità di immaginare qualcosa di altro dalla realtà stessa. E se...? è il senso della letteratura: il modo in cui possiamo inventare un'altra realtà e il nostro stesso destino".

La letteratura è anche menzogna quindi?

"Certo. La questione della verità in letteratura non è morale, bensì estetica: è una verità del cuore e delle emozioni, per cui attraverso una bugia possiamo dire cose verissime".

Torna spesso a casa in Marocco?

"Molto spesso. Mi trovo bene e sono molto felice che i giovani si facciano avanti e chiedano rispetto e dignità: questa generazione è stupefacente. Noi siamo stati cresciuti nella paura, invece loro chiedono diritti e libertà di parola".

A proposito di parola, perché la lingua araba è per lei "un mito"?

"La lingua araba scritta è molto diversa da quella parlata. Parlo arabo ma non lo so leggere e scrivere molto bene ed è un argomento che sto affrontando in un libro: da bambina a scuola l'ho studiato, eppure non sono riuscita a impararlo, forse perché erano le lezioni di religione e l'insegnante era molto rigida".

E poi?

"Per anni ho tentato di impararlo ma non ci sono riuscita e non so perché: è un mistero che non ho ancora risolto. Però ho incontrato molte persone con lo stesso problema, in Marocco".

Conosce Boualem Sansal, che è ancora in arresto in Algeria e del cui destino non si sa nulla?

"Lo conosco da dieci anni, in Francia abbiamo lo stesso editore.

Sono furiosa e scandalizzata per quello che gli sta accadendo: è inaccettabile mettere qualcuno in prigione perché esprime quello che pensa. E sono triste per il popolo dell'Algeria, dove il potere può fare una cosa del genere. Spero che Sansal torni presto libero".

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