Cultura e Spettacoli

Se il giovane critico si lancia nella narrativa imitando Henry James

Einaudi manda in libreria i racconti di Gabriele Pedullà. «Lo spagnolo senza sforzo» è un esordio letterario ricco di sensibilità e già maturo dove tutti le ambiguità del linguaggio vengono sfruttate per confezionare colpi di scena degni di Pirandello

Dopo essersi conquistato un nome e una posizione di rilievo nella squadra dei «giovani critici militanti» e in quella ancor più nobile dei «promettenti studiosi di italianistica», ora Gabiele Pedulla (classe 1972) salta il fosso è propone al lettore una raccolta di racconti dal titolo «Lo spagnolo senza sforzo» (Einaudi, pp. 182, 14 euro). Cinque racconti dove la perizia letteraria e la vocazione narrativa di Pedullà fanno di questo libro un approdo sicuro per il lettore. Cinque racconti tenuti insieme da un legame forte: la capacità dell'autore di rimanere aderente alla prospettiva e al linguaggio del narratore e all'ambiente in cui questo si trova a vivere. Offrendo così una mimesi assolutamente all'altezza delle ambizioni. Si tratta, però, anche di testi nei quali esce prepotentemente il piacere del narrare, costruito su una grammatica del racconto canonica ma mai scontata. Cinque colpi di scena che fanno esplodere il crescendo in cui i testi sono assemblati. Cinque episodi «emblematici» di una condizione esistenziale mai scontata. Nel primo («Miranda»), forse il più ambizioso, l'amicizia tra una giovane studentessa e una compagna non vedente fa scoprire al lettore alcune pieghe dell'interiorità di entrambe che solo un grande osservatore della natura umana può offrire e - per di più - può farlo solo se sa maneggiare con perizia e quasi pignoleria il linguaggio letterario. Secondo Renato Barilli questo libro guarda a modelli alti e prestigiosi come Moravia e Henry James. Il critico de «La Stampa» nota soprattutto come il giovane Pedullà poco abbia a che fare con i «tratti di volgarità e di sessismo sfrenato» del realismo-pop nato negli anni Novanta. E sicuramente di fronte alla puntualità con cui Pedullà ci introduce nel mondo delle due ragazze si può certo pensare all'autore de «La coppa d'oro». Diverso il confronto con Moravia. Sicuramente Pedullà sceglie un metodo narrativo tipicamente novecentesco ma l'empatia con i suoi personaggi è senza dubbio più forte rispetto a quella dell'autore di «Agostino» e de «Gli indifferenti».
Oltre «Miranda», anche «Armoniosa e risonante» e «Valle della morte» ci regalano piccoli gioielli che possono essere etichettati come racconti di formazione, laddove appunto il narratore riesce a esporre un'avventura, un'esperienza, un capitolo della sua maturazione. In una parola della sua crescita come persona. Il crescendo di «Valle della morte», in cui si racconta soprattutto del valore dell'amicizia e degli innocenti svaghi dell'adolescenza, Roma viene restituita in tutta la purezza e il candore che solo riescono a notare gli occhi di un ragazzino pieno di curiosità e di gioia di vivere. «Armoniosa e risonante», invece, è un racconto sulle difficoltà e sulle trappole del linguaggio. Un racconto dove si sente tutto il bagaglio teorico di Pedullà che, con spiazzante maestria, riesce però a non trasformare il gradevole resoconto dei primi amori di un'estate al mare in un pedante saggio.
Gli ultimi due racconti mettono, invece, al centro della scena adulti fatti. Per il primo dei due (senza dubbio il più commovente del libro) si parte da una citazione cinematografica: «Frantic» di Roman Polanski. La coppia di giramondo e cinefili protagonista del testo, dopo uno spiacevole scambio di valige all'aeroporto, si ricorda dell'identica scena nel film con Harrison Ford. Alla delusione iniziale subentra il desiderio di inventare un gioco dove gli scambi di valige diventano quasi il motivo dominante dei loro continui viaggi all'estero. Un modo per bucare il muro della realtà e per entrare in comunione con l'Altro. Un modo, però, che - grazie al colpo di scena finale - rivelerà fragilità fino ad allora sopite. Un coup de theatre che per Luca Archibugi («Messaggero») fa pensare al pirandelliano «Figlio cambiato» e a tutto il suo carico di dolore e di malinconia esistenziale.
«Lo spagnolo senza sforzo», racconto che dà poi il titolo all'intera raccolta, è quasi un apologo sulle trappole di una lingua, imparata quasi meccanicamente da un giovane manager italiano. Anche qui Pedullà evita accuratamente di cadere nei riti metaletterari di chi, scrivendo, intende proporre saggi mascherati da racconti. E ci restituisce anche l'immagine autentica e credibile di un Sudamerica ben lontano dagli stereotipi oleografici.
«I protagonisti di questi racconti - recita il breve testo introduttivo posto in quarta di copertina - vivono parlando, come tutti noi: usano le parole per giocare, per ferire, per sedurre, per spiegare, per confondere. E a volte non si accorgono che quelle stesse parole finiscono per "usare" loro, portandoli dove non sapevano di voler andare».

Il debutto narrativo di Pedullà insomma non lascia dubbi: ci troviamo di fronte a uno scrittore già maturo e ricco di potenzialità.

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