Osservando criticamente gli attuali parametri sociali rilevabili a Milano, oltre che luso del dialetto milanese, nei secoli saldamente affermatosi come la lingua per la sua ben dettagliata grammatica e ortografia nellalta produzione letteraria, poetica e teatrale, sia musicale che recitativa, si va compiendo anche la tendenza ad un abbandono graduale delle tradizioni. E uno di questi fatti, tanto popolare quanto poco conosciuto nella sua portata reale, come molte intuizioni di cervello fine dei nostri avi, sta proprio ora accadendo sotto gli occhi di tutti: la possibile scomparsa nei panifici della nostra tanto simpatica michetta, confidenzialmente detta anche «rosetta», per i suoi cinque petali da rosacea lombarda spontanea.
Una faccenda paradossale, tanto da far sorridere specie chi di Milano non è per una questione cromosomica, ma che sta qui per aver pienamente realizzato quel sogno di vita, che anche nel paese di origine stentava troppo ad affermarsi. E benvenuti siano questi «milanesi ariosi» che qui si vedono ben appagata la loro prima assopita voglia e capacità di lavoro e condividono appieno il nostro motto di «Lavorare con impegno e aiutare gli altri a farcela».
Ma forse non sono solo questi ma anche molti dei nostri originari a non sapere quale simbolo sia per noi la nostra profumata michetta, vuota e leggera, che pizzichiamo per assaggiarla di gusto quando ancora sbuffa calda nel sacchetto di carta e da cui traiamo il nostro «pan pòss», per imboraggiare la famosa «cotoletta», la soffice costoletta di vitello, premuta col palmo della mano, quando ancora gronda delluovo battuto a forchetta... e senza sale, perché limpanatura non si scolli nel cauto abbrustolimento della cottura. Sarà salata poi, appena dorata, e non sarà mai battuta col pestacarne per trarne quella «oreggia delefant», con cui i somali fanno i tavolini.
Ma la vera titolazione di simbolo la «micchètta» se lè guadagnata sul campo. Già, sul campo della campagna dove i contadini lavoravano a dorso piegato, e non erano certo gente dalla «canètta de véder» - dalla colonna vertebrale fragile - ma sudavano eccome, portando il loro fazzolettone al collo, con dentro floride ortiche, per scacciare le zanzare, esponendolo in parte. Non così le mani e i piedi scalzi al sole cocente, «a rebatton de sò», che si incrostavano della dolorosa pellagra del «collare, guanto e calzare squamosi».
La loro pelle si squamava fra tormento, dolori e richiamo di insetti. La gola arida e la lingua addirittura tagliuzzata: un tormento di dolori nervosi e mentali. La causa? La miserabile alimentazione persistente nella seconda metà dell800, povera di carni, uova, fegato e latte, fonti commerciali, e sopratutto basata sul consumo di mais, tritato ancora umido, malcotto accanto alle braci e privo della vitamina PP (identificata nella B6). Ed ecco le prediche di un giovane sacerdote, don Rinaldo Anelli: fare un «pane igienico», cotto in una camera senza braci, scaldata da fuori, e abbandono delle malcotte pagnotte - le «micche» - del peso di chili, e perciò soggiacenti a muffe, passando con sacrificio a piccole micche di frumento. Le «micchètte».
Ben lievitate con il loro lievito spontaneo, impastate dopo due-tre tempi di riposo, così da risultare vuote di mollica dentro e con la crosta ben croccante fuori. Ed ecco la divina, salubre «micchètta» (20-22 per 1 chilo di «boffèt» o 36 di «cavorìtt», le minime da un boccone) a cinque spicchi e con ben esposta la «rosetta» apicale di cottura, data con lo stampo della «formella di micchétt»!
La spesa per i nuovi forni? Ma ne bastavano uno per comunità, per paese, per comune: ogni famiglia poteva prenotarsi il turno di cottura portandosi da casa la pasta cruda da loro ben lievitata.
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