Gli 80 anni dall'atomica su Hiroshima e il tramonto del tabù nucleare in Giappone

Mentre il Paese del Sol Levante ricorda le vittime di Hiroshima, cresce il dibattito su armi nucleari e deterrenza. L’ombrello USA vacilla, i populisti avanzano: il veto atomico scricchiola pericolosamente

Gli 80 anni dall'atomica su Hiroshima e il tramonto del tabù nucleare in Giappone

Ottant’anni fa, alle 8:15 del mattino, il sole su Hiroshima fu oscurato da un lampo bianco. In quell’istante, un’onda di calore di oltre un milione di gradi attraversò la città, incenerendo case, scuole, ospedali, dissolvendo in un istante corpi e vite. Nel raggio di due chilometri dall’epicentro, nulla restò in piedi. Le ombre delle persone, impresse sui muri dai raggi gamma, divennero l’unico segno della loro esistenza. Quasi 140.000 persone morirono entro la fine del 1945, molte di ustioni e ferite impossibili da curare, altre divorate da malattie mai viste prima: leucemie, tumori, un lento decadimento del corpo.

Il futuro spezzato degli hibakusha

E poi ci furono loro, gli hibakusha — termine che in giapponese significa “persone colpite dall’esplosione” -i sopravvissuti- testimoni viventi di un orrore unico nella storia umana. Secondo dati del Ministry of Health, Labour and Welfare giapponese, oggi ne restano meno di 100.000, con un’età media di oltre 85 anni. Portano nel corpo e nell’anima le cicatrici di quel lampo: ustioni indelebili, malattie croniche da radiazioni, incubi che non conoscono tregua. Per decenni hanno dovuto affrontare non solo il dolore fisico, ma anche la discriminazione — molti giapponesi temevano che potessero trasmettere malattie ai figli o non fossero più in grado di lavorare.

Alcuni nascosero per tutta la vita il proprio status, rinunciando persino alle cure gratuite garantite per legge, pur di non essere marchiati. Eppure, dagli anni Cinquanta in poi, migliaia di hibakusha hanno scelto di parlare, spesso a costo di riaprire ferite emotive profonde, per mostrare al mondo ciò che l’arma atomica fa a un essere umano. Come disse la sopravvissuta Setsuko Thurlow davanti all’ONU nel 2017, ricevendo il Nobel per la Pace a nome della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons: “Ho visto la mia città scomparire. Ho visto la mia famiglia e i miei amici bruciare. Tutto quello che ho da offrire è la mia voce, e non smetterò di usarla”.

Nei mesi successivi, Hiroshima si trasformò in un ospedale improvvisato a cielo aperto, tra il fetore della carne bruciata e il silenzio rotto solo dal pianto dei sopravvissuti. Negli anni seguenti, l’orrore si insinuò nelle generazioni: madri che temevano di partorire figli malformati, uomini che nascondevano il loro passato da hibakusha per evitare discriminazioni sul lavoro e nei matrimoni. Hiroshima e, tre giorni dopo, Nagasaki non furono solo tragedie istantanee: furono ferite aperte che continuarono a sanguinare nel corpo e nella psiche collettiva del Giappone.

Il Giappone di oggi e le incognite sull'ombrello nucleare americano

Tra le strade ordinate di Hiroshima, Yoshiko Niiyama — 91 anni, una delle ultime hibakusha — racconta ancora di aver visto “corpi senza volto, bruciati fino alle ossa, e un silenzio rotto solo dal crepitio del fuoco”. Per lei e per gli altri sopravvissuti, l’idea stessa che il Giappone possa aprire un dibattito sulle armi nucleari è un dolore quasi fisico, una ferita riaperta. Hanno passato una vita a lottare perché nessun’altra città subisse ciò che loro hanno vissuto; ora assistono, impotenti, a un linguaggio politico che sembra normalizzare ciò che per loro resta inimmaginabile. “Se dimentichiamo” dice Niiyama, “allora il bombardamento non sarà stato solo una tragedia: sarà stato inutile”.

Eppure, mentre le loro voci si affievoliscono con l’età, la logica glaciale della geopolitica guadagna spazio nel discorso pubblico. Oggi, nell’estate del 2025, mentre gli ultimi hibakusha custodiscono e tramandano il ricordo di quel giorno, il Giappone si ritrova di fronte a una contraddizione inquietante: proprio nel Paese che ha conosciuto l’inferno atomico, il tabù di discutere di armi nucleari comincia a incrinarsi. Le ombre del passato e le paure del presente — tra una deterrenza americana percepita come fragile sotto Donald Trump e un mondo sempre più instabile — si intrecciano in un dibattito che, ottant’anni dopo, suona come un sinistro contrappasso della storia.

Per decenni, la memoria di Hiroshima e Nagasaki ha alimentato il pacifismo giapponese, scolpendo nei principi politici della nazione il rifiuto assoluto dell’arma atomica. Ma il XXI secolo ha infranto molte certezze: la guerra in Ucraina, le minacce missilistiche nordcoreane, la crescente assertività militare della Cina hanno eroso il senso di sicurezza. Come testimonia l’ultimo rapporto del SIPRI, la Cina ha già più testate nucleari di Regno Unito e Francia messi insieme e sta ampliando l’arsenale più velocemente di qualsiasi altra nazione, con circa 100 nuove testate l’anno dal 2023 e una possibile capacità di 1.500 ICBM nucleari entro il 2035.

A rendere il quadro ancora più instabile, la nuova presidenza Trump ha scosso la fiducia nell’ombrello nucleare statunitense, una garanzia che Tokyo ha sempre considerato vitale. Oggi, voci fino a poco tempo fa inimmaginabili emergono nel dibattito interno: politici di primo piano ventilano la possibilità di un “nuclear sharing” con Washington o, persino, di sviluppare capacità autonome. Per un Paese forgiato dall’orrore atomico, è un passaggio che segna una frattura culturale profonda.

Il tabù infranto

Oggi il Giappone cammina su un crinale sottile, sospeso tra la fedeltà a un’eredità morale unica e le esigenze, reali o percepite, di un mondo tornato a flirtare con la catastrofe nucleare. I Three Non‑Nuclear Principles, pilastro della politica nazionale per oltre mezzo secolo, vengono ora messi in discussione. Il partito Sanseitō, fondato nel 2020 da Sohei Kamiya, si è imposto come nuova forza populista in Giappone, guadagnando un consenso inatteso alle elezioni di luglio. Kamiya, ex riservista delle Forze di Autodifesa e figura mediatica nota per la retorica nazionalista, anti-globalista e apertamente ispirata allo stile di Trump, ha rotto uno dei tabù più radicati del Paese. Gran parte dei candidati di Sanseitō rifiuta i "Tre Principi" e sostiene la possibilità per il Giappone di dotarsi di testate proprie, definendo la deterrenza nucleare una misura “economica ed efficace” per la sicurezza nazionale. Lo stesso Kamiya ha dichiarato che il Paese “deve almeno discutere” l’opzione, arrivando a ipotizzare un’uscita dal Trattato di non proliferazione se le circostanze lo richiedessero

La presidenza Trump, con il suo approccio transazionale alle alleanze, ha reso palpabile un timore che covava da anni: e se l’ombrello nucleare americano non si aprisse quando davvero necessario? Questo dubbio non è solo un calcolo strategico; è un terremoto psicologico in una nazione che ha affidato gran parte della sua sicurezza a un’alleanza fondata su fiducia e costanza. Il rischio è che, sotto la pressione di un contesto internazionale in cui la Russia agita lo spettro atomico e la Corea del Nord moltiplica i test missilistici, l’orrore vissuto a Hiroshima e Nagasaki venga gradualmente relegato a capitolo di storia, utile solo come retorica, ma incapace di frenare decisioni irreversibili.

La vera sfida per il Giappone, nell’ottantesimo anniversario di Hiroshima, non è solo commemorare.

È dimostrare se un Paese che ha conosciuto l’arma atomica sulla propria pelle possa rifiutare di piegarsi alla logica della deterrenza, oppure se, in nome della sopravvivenza, accetterà di condividere o possedere proprio quell’arma che ha giurato di bandire per sempre.

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