La storia del giornalismo è anche un cimitero di firme dimenticate. Inviati un primo tempo famosi e di cui al secondo tempo nessuno si ricorda più, commentatori che spiegavano ai politici cosa fare e che la politica ha seppellito senza spiegazioni, direttori felicemente regnanti e poi di colpo espulsi dal regno e dalla mente dei sudditi, lettori e colleghi, scoopisti di scoop di cui solo loro conservano la memoria. È un mestiere fatto di parole scritte e di carta, le prime si usurano e sbiadiscono, la seconda ingiallisce e invecchia. La concorrenza delle nuove leve, il mutare degli stili e dei gusti fanno il resto e in una generazione si consuma il passaggio da «brillante promessa» a «esimio maestro» a «vecchio stronzo».
Negli anni ’70, quando Winchell morì al funerale c’era solo la figlia Walda. Trent’anni prima, all’apice del successo, aveva una rubrica giornaliera su più di mille quotidiani americani e una trasmissione radiofonica alla Nbc ascoltata da 50 milioni di connazionali. Una sua recensione poteva affondare o salvare uno spettacolo teatrale a Broadway, un suo articolo favorire o stroncare una carriera politica a Washington, una malignità sessuale a sua firma far saltare un matrimonio in qualsiasi Stato dell’Unione... Adolescente, Woody Allen gli invierà i suoi primi sketch, giovanissima, Marilyn Monroe festeggerà con lui il compleanno, Ernest Hemingway siede spesso al suo tavolo allo Stork Club, è amico del presidente Roosevelt, del capo dell’Fbi Hoover, del capo della mala Costello. Nella sua ascesa e declino c’è tutto il giornalismo, o meglio quel giornalismo che ha finito per trionfare: allusivo, gergale, guardone e impiccione, pruriginoso, ma con la morale, popolare, ma democratico.
L’occasione per tornare a parlare di Winchell la dà ora questo testo di Michael Herr, l’autore di Dispacci, ovvero di quello che per molti critici è «il miglior libro mai scritto sulla guerra in Vietnam». Si intitola Mr Winchell. La Voce dell’America (Alet, pagg. 190, euro 17,50) ed è una sceneggiatura strutturata in forma di romanzo, scritta nel 1990 e poi mai utilizzata dalla Warner Bros. Del resto, da vivo Winchell aveva interpretato se stesso in qualche film di cassetta, cammei che ne confermavano la popolarità e, sempre da vivo, ma quando ormai il vento aveva cominciato a soffiargli contro, si era ritrovato impersonato da Burt Lancaster in Sweet smell of Success (Piombo rovente), ritratto di un giornalista arrogante, livoroso e imbroglione che usava i media per le sue guerre personali. Herr è uno scrittore agli antipodi del suo biografato, riservato e discreto quanto quest’ultimo era ossessionato dalla visibilità e dalla popolarità, e quindi il suo Mr Winchell è anche, come nota Francesco Trento nella bella introduzione al volume, «un’aspra riflessione sulla fama».
Artista fallito di vaudeville, della produzione giornalistica di Winchell rimane ben poco. Parlava a velocità supersonica, infarciva il linguaggio di allitterazioni, sciogli-lingua, neologismi. «Leggermente incinta» è probabilmente una sua invenzione, anche se c’è chi la attribuisce al Damon Runyon di Bulli e pupe, sua è le «debuttanti» ribattezzate «deputtanti» e «non dire a mia madre che faccio il giornalista. Crede che suoni il piano in un bordello»... Aveva un senso dell’umorismo non proprio fine, ma efficace. «Le ho chiesto: “Ti piace Kipling?”. “Non lo so, non ci sono mai stata a letto” mi ha risposto». «Non posso impedire a Rita Hayworth di avere bambini, però le posso impedire di averli nella mia rubrica». «Non c’è niente di male a essere poveri, a parte il fatto che è una noia mortale». «“Hai sentito la mia trasmissione domenica?”. “No, mi dispiace, l’ho persa. Quel giorno è morta mia madre”. “Niente scuse”»...
Durante la Seconda guerra mondiale e poi ai tempi del maccartismo fu, con lo stesso stile, un convincente propagandista antinazista e anticomunista, gli «svasticarogne», i «porcomunisti», cose così, unite all’isteria da impiccagione, fucilazione, annientamento dell’avversario... Qualche anno fa Philip Roth nel suo romanzo ucronico Il complotto contro l’America ipotizzò che nel 1940 fosse andato alla casa Bianca non Roosevelt, ma Charles Lindberg, fautore di una politica di amicizia con la Germania hitleriana, e trasse per un momento dall’oblio Winchell. Ne fece il giornalista ebreo che si ergeva contro la deriva antisemita del nuovo presidente e ne rimaneva vittima, assassinato in un comizio... L’assunto era che proprio colui «che faceva un mucchio di soldi incarnando le passioni dei più scadenti nuovi quotidiani per lettori semi-analfabeti», il giornalista più scandalistico e bugiardo che fosse mai esistito, fosse comunque meglio del solitario trasvolatore, eroe d’America, ma filonazista...
Nella realtà Winchell fu un re del gossip. Partì dal mondo dello spettacolo, ma lo allargò alla politica, all’economia, persino alla criminalità. Il motivo di base era, diciamo così, democratico: la celebrità non può e non deve nascondersi, perché l’uomo della strada, il cittadino medio, ha diritto di sapere la verità sui propri beniamini. Se c’è chi si nega vuol dire che ha qualcosa di cui vergognarsi e quindi ancor più da rendere nota. Nell’«abbassare» la celebrità, Winchell «alzava» il lettore, gli dava l’illusione di essere migliore, almeno per un attimo gli faceva dimenticare la propria miseria facendogli vedere quelle altrui più famose... Allo stesso modo, nel suo esaltarle, metteva in moto un sentimento di emulazione-compensazione. «Le luci della ribalta sprigionano un veleno per cui nessuno ha ancora trovato un antidoto». «Nessuno ama chi non è qualcuno».
Il suo tramonto fu il combinato disposto di diversi fattori. Aveva creato un genere, ma non ne deteneva l’esclusiva, quel genere divenne scuola, si fece norma, non fu più originale. La televisione gli diede un colpo mortale, perché Winchell era una voce e una firma, ma non un volto, e quando cominciò ad apparire, lo spettacolo che si presentò sullo schermo era quello di un collerico uomo di mezz’età che strillava alle telecamere, il cappello in testa, un tasto del telegrafo a fianco, un saluto che di colpo appariva vecchio: «Buonasera, signoressignora America e tutte le navi in alto mare, qui Walter Winchell, il vecchio strillone»... Giornalista al New York Daily Mirror, un quotidiano della catena di Randolph Hearst, il magnate dell’editoria che ispirò il Quarto potere di Orson Welles, la sua forza stava anche nello strapotere del suo padrone. Nel tempo, i processi per diffamazione, le battaglie legali per risarcimento danni divennero sempre più onerosi e sempre meno comprensibili, perché Winchell nel suo delirio di onnipotenza aumentava il numero dei sicuri nemici senza per questo poter contare su dei veri amici... Le mille e più testate cominciarono a ridursi, divennero un centinaio, cifra pur sempre ragguardevole, ma intanto il volume di fuoco degli altri aumentava in parallelo con il diminuire del suo...
Avesse avuto più cultura, forse avrebbe ancora potuto tener botta, ma Winchell era un cronista di notizie, vere, verosimili e false, dal commento caustico, nella logica di quel mondo del varietà dove aveva mosso i primi passi. Potevano funzionare negli anni della Grande depressione e poi in tempo di guerra, quando a un’analisi non si chiedeva di essere intelligente, ma efficace, ma già nel maccartismo che lo vide esagitato cacciatore di comunisti, si rivelarono più facilmente smascherabili, oltre ad alienargli le simpatie di quell’ambiente intellettual-mondano, scrittori, registi, sceneggiatori, che era il suo habitat naturale.
Infine, Winchell si ritrovò superato dall’intuizione di Andy Warhol. Aveva fondato il suo giornalismo sulla celebrità da celebrare, non si rese conto che stavano arrivando i «quindici minuti di celebrità per tutti».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.