"Per un tipo strano come me la normalità è un successo"

Lo scrittore premio Pulitzer torna a raccontare le avventure del suo Frank Bascombe, ormai anziano

"Per un tipo strano come me la normalità è un successo"

Richard Ford è nato 80 anni fa a Jackson, Mississippi, Stati Uniti del profondo Sud. È a Milano per parlare del suo nuovo romanzo, Per sempre (come di consueto Feltrinelli, pagg. 360, euro 22; lo presenterà oggi alle 19 alla Feltrinelli di Piazza Piemonte e domani a Pordenonelegge, ore 19): protagonista, per la quinta volta, è il suo Frank Bascombe, che nel 1996 gli ha fatto vincere il Pen e il Pulitzer (per Il giorno dell'indipendenza). Frank è anziano, ha perso un figlio, si è separato due volte e ora l'altro figlio Paul è malato di Sla: insieme intraprendono un ultimo, americanissimo viaggio on the road verso il Monte Rushmore. «Vede? Ora bevo questo caffè e potrei morire d'infarto. So di che cosa parlo, perché mio padre è morto fra le mie braccia per un infarto. Ma a me va bene».

È felice?

«Sì. Sono felice. Perciò alla morte dico: prendimi pure, anche adesso».

Sportswriter e Per sempre, il primo e l'ultimo romanzo su Frank Bascombe, parlano di felicità. È un suo tema fondamentale?

«Sì. Quando ho iniziato a scrivere Sportswriter ero perplesso e mia moglie mi disse: Perché non scrivi di qualcuno che sia felice, anziché di qualcuno infelice?. Io prima avevo scritto di esistenze terribili, di violenza. Ma come dovevo fare? Sa, Tolstoj dice che tutte le famiglie felici sono uguali... Non è vero».

E quindi come ha fatto?

«Bisogna cercare di mettere la persona in una situazione molto triste - la perdita di un figlio, di un matrimonio, di una vocazione - e vedere se riesce a superarla e a rimanere felice. È quello di cui scrivo sempre».

È un tema molto americano?

«Noi americani fingiamo di essere interessati alla felicità, ma non è veramente così: amiamo il conflitto e il dramma; perciò devo sempre trovare il dramma nella felicità».

Frank ha la sua età?

«È un pochino più giovane, di un annetto. Così ho potuto raccontare tutto l'arco della sua esistenza, attraversando periodi della sua vita che conosco, anche se magari non ne ho fatto esperienza allo stesso modo. Per me molto comodo».

Perché?

«Ho meno lavoro da fare... Ora ho in mente di scrivere un romanzetto comico, una storia in un campus. Ne parlavo due settimane fa con il mio amico John Banville e lui mi ha fatto notare che non ci sono più campus, nei college: Devi ambientarla da qualche parte nel passato mi ha detto. E io: Accidenti. Come faccio? È il tipico dilemma da romanziere».

Come lo risolve?

«Devi trovare una soluzione al dilemma che di fatto ignori il dilemma. Questo è il modo in cui cerco di risolvere tutti i problemi: ignorandoli».

Come Frank?

«Sì. Alla Law School ho imparato che non devi lasciare che la situazione prenda il comando su di te, bensì prendere tu il comando della situazione. Quindi, se mi si presenta un insieme di fatti che possono essere problematici, il mio approccio è: e se fosse vero l'opposto? E se questo problema non fosse un problema da risolvere, bensì un'opportunità?».

Come si fa?

«Basta dargli un altro nome. L'ho imparato dalla terapia della Gestalt, che ho studiato negli anni '60, perché pensavo di avere dei problemi di personalità. Fritz Perls non chiedeva ai suoi pazienti che cosa ti impedisce ti fare questa nervosi? ma che cosa ti consente di fare?».

Siamo tutti un po' Frank Bascombe?

«Lo spero. Spero che tutti possano ritrovare qualcosa di sé nel libro. Ritengo di essere il più ordinario degli uomini e questo mi permette di creare una comunità con i miei lettori: loro sono come me e io come loro».

Leggendo di Frank, la sensazione, familiare, è che si concentri sulle piccole cose e si perda quelle grosse.

«Forse è così. Del resto, se io dovessi scegliere su che cosa concentrarmi, mi concentrerei sulle cose piccole, perché è lì che si trova la gran parte delle sensazioni, dove si compiono gli errori e dove si possono comprendere le cose più facilmente. E credo anche che, se prestiamo attenzione alle piccole cose, questo ci aiuti a relazionarci con quelle più grandi, e a non perdercele. È esattamente come sono io: consumato dai dettagli. Ma credo che questi dettagli ci mettano in contatto con le grandi questioni della vita».

È così che lavora, anche?

«Precisamente».

Frank è un brav'uomo.

«Sì. Anche se non tutti sono d'accordo».

Una specie in via d'estinzione?

«Spero di no. Ma capisco perché lo chieda. In termini contemporanei, lui sarebbe facilmente cancellabile. Non per me... Frank non dice sempre la cosa giusta, non pensa sempre la cosa giusta, ma dice ciò che pensa e io registro le sue esperienze; quindi, forse, condivido le sue colpe. E anch'io, di tanto in tanto, sento le forze della cancellazione incombere su di me. Il poeta Randall Jarrell diceva: devi essere sicuro di insultare le persone giuste. Cerco di fare del mio meglio, in questo».

Ha una routine?

«Quando lavoro, sì. Altrimenti no, però mi porto sempre un taccuino. Per esempio, per questo piccolo romanzo comico che vorrei scrivere non avevo un titolo, e questo mi preoccupava; ma questa mattina, guardando il Duomo, bellissimo, con le sue 135 guglie, me ne è venuto in mente uno: ecco, mentalmente mi aiuta. Non c'entra nulla con la vostra cattedrale, comunque».

E quando lavora?

«Scrivo dalle 8 e mezza alle 13, faccio una pausa di due o tre ore e riprendo fino alle 18 circa. Poi riorganizzo i pensieri per il giorno successivo: amo tornare alla scrivania con qualcosa già in mente. L'ho imparato da Hemingway, che diceva: lasciati sempre nel mezzo di qualcosa, non fermarti mai alla fine di un paragrafo, o di un capitolo; così, quando torni, puoi riprendere».

È facile?

«No. Da giovane soffrivo di disturbo ossessivo compulsivo e mi fissavo a scrivere sempre due paragrafi in più, pur sapendo di dovere smettere. E poi, il giorno successivo, avrei voluto cambiare tutto. Ero anche dislessico e intorno ai 9 anni ho sofferto della sindrome di Tourette: quindi è molto facile, per me, scrivere di Frank, perché conosco tutte le sue fragilità».

E oggi?

«Alle superiori le ragazze mi chiamavano Rich-odd, cioè strano. Era l'ultima cosa che volessi: io volevo essere regolare, invisibile. Normale. Per molto tempo è stato un miraggio. Perciò, ecco il più grande successo della mia vita: oggi sono ufficialmente normale. Molti coltivano l'eccentricità, io coltivo la normalità».

Anche in letteratura?

«Non sono interessato a ciò che separa le persone, quei personaggi alla Boo Radley, ha presente? È un uomo un po' disturbato, nel Buio oltre la siepe: nei romanzi del Sud c'è sempre uno così. Io non lo sopporto. Per quello non ho mai letto Harper Lee: da giovane volevo leggere dei romanzi sull'America, non sul Sud».

Il Sud non è America?

«Il Sud è il Sud. In Assalonne, Assalonne!, Faulkner dice: Io non lo odio. Io non odio il Sud, ma faccio altro. Ho letto altro».

Che cosa?

«Saul Bellow, Philip Roth, John Cheever, Joan Didion, John Updike».

La morte è un tema centrale del romanzo.

«Le persone, soprattutto in America, tendono a distogliere lo sguardo dalla morte. Io invece mi dico: non farlo, non ignorarla, non averne paura. Pensa alla morte. Da piccolo, i miei parenti erano anziani, quindi era normale che morissero: dovevi prenderla in modo divertente, cercare di adattarti alla sua presenza. Ed è quello che faccio fare anche a Frank».

E dopo?

«Zero.

La storia è finita. Se avrò una lapide, ho chiesto a mia moglie Kristina di incidervi la frase Nothing is enough, niente è abbastanza... che può essere interpretata in due modi. Ma ho una paura tremenda che non lo farà».

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