
L'abbiamo letta volentieri, questa Breve storia eretica della Musica Classica di Alessandro Baricco (musica seria o esatta, avrebbe scritto lui da giovane) che non è lunga, non è scolastica e non è molto eretica, ma non importa, eretica va bene, non è un richiamo di chi usi la musica per parlare d'altro: anche perché, Baricco, nostro parere, ha sempre parlato d'altro per mascherare principio e fine della sua ispirazione: questa. Il materiale promozionale spaccia un "racconto affascinante e comprensibile a tutti" ma non lo è nemmeno minimamente, è una seducente truffa, è una Storia per chi la conosce già, Baricco torna (resta) a L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin che a suo modo, ora, riorganizza in una mappa più ampia; che poi mappa, mappe, c'è sempre questo leitmotiv della mappa che è pur sempre uno strumento di superficie per barbarici mutanti "culturali", il che si sposa, sempre nostro parere, con la migliore definizione di musica che sia mai stata data: un mistero nascosto alla superficie. Dopodiché, lasciata la superficie, e passati allo scavo dell'approfondimento, cominciano i guai. Sappiamo. Detto questo, Baricco è un classe 1958 e ancora una volta pare di coglierlo in una fase da Schoenberg prima maniera: il libro è parcellizzato e decostruito, ha le pagine non numerate con dei capitoletti/frammenti come nei suoi ultimi saggi, divaga da temi dati per scontati (per fortuna) e insomma, siamo in pieno Novecento; la forma implode e si affaccia l'atonalità della pagina breve, ma Baricco non rompe il patto col pubblico, non fa l'errore che lui rimproverò agli avanguardisti, e a suo modo ora prosegue la sua Verklärte Nacht da camera e forse persino la sua Sagrina di Stravinskij (non oltre) che mantenga un ritmo arcaico così da far battere il piede all'avventore Feltrinelli. Ce la raccontiamo così: un Baricco che gioca sì con la rottura, ma, poi, ci si consegna in forma narrabile, godibile, e poi magari, un giorno, andrà a svernare a Beverly Hills dove riesumerà un suo stile neoclassico.
Nell'attesa ci confeziona questo libro formidabile che ha un'estetica vintage da Club degli editori (eleganza anni Ottanta) dove la musica diviene un passepartout per ripercorrere, nostra interpretazione, l'evoluzione del cervello umano, passato dal solo sistema limbico, che si limitava ad ascoltare la natura, sino all'ingombrante neocorteccia che ci ha spinto nel tempo a manipolarla. Abbiamo prostituito il suono nel tentativo di addomesticarlo. È la parte meno esplorata della Storia: Baricco non si fa distrarre da troppe chiavi psicoanalitiche (musica come riformulazione dell'esperienza percettiva del corpo materno, queste cose) e non indugia in letture filosofiche che vedano, nella musica, la ricerca allucinatoria del desiderio di un Eden, dove non ci sia distanza tra parole e cose. Gli uomini della sua Storia non si limitarono a inseguire la musica, ma pensarono che avrebbero potuto domarla. È un'eresia anche questa: "Strumenti, tempi, stili, suoni" e altri modi di correggere Dio. Poi il libro decolla. La scelta del temperamento equabile (l'accordatura delle nostre 7/12 note) fu un compromesso come altri (un alfabeto molto breve) e traduciamo noi è pur vero che la tastiera del fortepiano mica potevano allargarla all'infinito, e la rotella del sintetizzatore ancora non esisteva. Le definizioni del nulla luccicoso dei vari Jean-Baptiste Lully, in particolare, ci hanno strappato un riso solitario, e la percezione della musica di Corelli è la più efficace che abbiamo mai letto. Così pure l'accenno alla differenza posturale che, a tutt'oggi, differenzia un abbonato all'Opera da un abbonato alla Società dei Concerti: ma se la Storia prende il volo non è perché Baricco ce la racconta (già la sapevamo) ma perché lui ne fornisce una concertazione che prima non c'era, o che avevamo sulla punta della lingua dopo qualche assaggio in libri affatto diversi. La maniera con cui Baricco liquida gli antipasti musicali del Settecento, poi, non rende più digeribile il pesante bolo ottocentesco, cioè non semplifica l'irruzione dei patetici re-inventori della realtà, coloro che, da Beethoven in poi, fecero terribilmente sul serio: e c'è un che di sinistro nel loro incedere romantico con annesse velleità di dominio e appropriazione delle emozioni, nell'antropocentrismo assoluto che rimosse ogni Creato, nel ridisegno del Mondo che faceva svenire la gente nei palchi dei teatri. La musica, in parallelo alla sinfonia, divenne un modello di sviluppo: anche se, come sempre, tutto quel progresso aveva un prezzo, ed era il dolore vissuto (anche) attraverso partiture squassanti. Si andava nei teatri per sentirsi selezionati tra i disegnatori di un mondo futuro, e oggi, paradossalmente, si torna negli stessi teatri per rimpiangere un mondo passato: non è ben chiaro, dunque, quando si sia stagliato un presente musicale, ma sappiamo che durò relativamente poco, anche perché il ponte tra musica e modernità non poteva reggere. La musica era, ormai, solo la maniera migliore per dire qualcosa che non poteva essere detto: e siamo a Wagner. Finalmente. Siamo a un Beethoven alle sue estreme conseguenze, al talento assoluto al servizio dell'Apocalisse: il già poco digeribile bolo ottocentesco si fa venefico, la musica diviene la via maestra verso un futuro oscuro: il problema non era invadere la Polonia, ma, ancor prima, non morire di dolore. Il pubblico, per dirla con un cantautore astigiano pure affacciatosi alla Scala, sentiva un segreto avvicinarsi, e, già allora, cominciò a non capirci più niente: cacciato Dio, e cacciato ogni misticismo, non rimaneva più neanche l'uomo: non un uomo dotato di orecchie, almeno. Rieccoci a Schoenberg e Stravinskij. E poi chiamatela atonale, dodecafonica, contemporanea, avanguardista, è lo stesso. La pretesa era che si ragionasse di musica anziché ascoltarla. Qui la Storia si fa epitaffio: il Novecento musicale non ha archiviato solo il passato, ma anche il futuro.
Nota mesta: il libro è bellissimo, ma termina due pagine prima della sua fine tecnica, perché nelle ultime due, disgrazia, Baricco cerca un improbabile ricongiungimento con l'avventore Feltrinelli, e prende qualche stucchevole distanza da tutta una storia maschile e sbagliata e senza speranza che è quella della musica, ma nondimeno, del genere umano. Ma va bene così.