Aleister Crowley. La montagna come simbolo, la caduta come rito

Il celebre "mago" inglese era anche un eccellente sportivo. A inizio del '900 tentò la scalata ai giganti degli 8mila. Fallì. Ma di lui resta la sfida a ogni regola

Aleister Crowley. La montagna come simbolo, la caduta come rito

Aleister Crowley è passato alla storia come il mago nero, il libertino più famigerato del Novecento, la Bestia 666, e, se guardate su Wikipedia, la definizione è "esoterista, astrologo, scrittore, poeta e alpinista britannico". L'alpinista, però, non lo conosce nessuno, o quasi. Si sa che era un distinto ragazzo classe 1875 dell'alta borghesia inglese, e che, per fare carriera scalando montagne (che era molto british, ai tempi) aveva tutte le carte in regola: era un eccellente sportivo e aveva conquistato il sesto grado di difficoltà verticale, a Cambridge si sarebbe potuto immaginarne un futuro da esploratore al pari di George Mallory (Everest) o degli altri gentlemen climbers che ai tempi proiettavano l'Impero sui ghiacciai himalayani: poi il destino gli ha consegnato un biglietto per l'inferno dell'immaginario.

La sua carriera alpinistica si consuma dal 1894 al 1905, ed è una leggenda rimossa. Nel 1898 scalò varie pareti del Galles con Oscar Eckenstein, già inventore dei ramponi (le punte di ferro infibbiate alle scarpe) il quale gli insegnò il rigore tecnico e la sfida alle convenzioni. Con Eckenstein, Crowley diventa uno dei primissimi a tentare i giganti da ottomila metri del Karakorum, la catena montuosa tra Pakistan e Cina e India. Con Eckenstein, pure, Crowley preparò il grande sogno himalayano con un allenamento messicano da romanzo d'avventura: nel 1900 scalarono due vulcani e poi ne fallirono un terzo, il Colima, perché eruttò mentre erano quasi in vetta, ma tutto era funzionale a temprare gambe e polmoni in vista del colpo grosso: il K2.

Nel 1902 partirono davvero e attaccarono la nord-est dell'ottomila più difficile del Pianeta, una cresta che ancor oggi mette paura. Salgono tra bufere interminabili, neve marcia e freddo insopportabile. Raggiungono i 6.700 metri che fu il record assoluto per l'epoca, ma, proprio a quella quota, un compagno fu colpito da edema polmonare e fu Crowley a insistere per scendere a valle: ma, quel giorno, gli altri esitano, si dividono, tentano un'altra via, è un fallimento e la tensione infine esplode; un membro della spedizione tirò una ginocchiata nei testicoli di Crowley per impedirgli di sparargli (girava armato anche a quella quota) e ne uscì una rissa da taverna a 6.000 metri.

C'è da aprire una parentesi su che cosa significasse, allora, fare alpinismo. Non esistevano piumini sintetici o gusci antivento: si saliva con giacche di lana pesante o cappotti di tweed e pantaloni alla zuava, gli scarponi erano chiodati, durissimi, con la neve poi diventavano blocchi di ghiaccio (non c'era la gomma Vibram) e sotto si mettevano dei calzettoni di lana su calzettoni di lana, e dei guanti di lana sopra altri guanti di lana, i quali, bagnati, gelavano e diventavano guaine di ghiaccio. Le corde erano di canapa e l'umidità le gonfiava e irrigidiva come travi, i ramponi si fissavano a martellate, e nei momenti più inopportuni, spesso si staccavano. Caschi: non pervenuti. Sacchi a pelo: di piuma pesantissima, e mai davvero asciutti. Le tende erano di tela, e al primo vento diventavano vele.

Poi c'era l'incredibile viaggio per arrivare dall'Inghilterra al Karakorum. Si partiva in piroscafo da Southampton o Londra (settimane di navigazione) fino a Bombay, seguivano giornate di treno fino a Lahore o Rawalpindi sinché iniziava la vera odissea: carovane di muli, cavalli, centinaia di portatori locali, ponti tibetani che sembravano trappole e villaggi che non avevano mai visto gente europea. Un approccio che durava svariati mesi: solo raggiungere il campo base significava consumare una buona parte della stagione e arrivarci a rischio di congelamenti, epidemie e dissenteria. Infine c'era la questione dell'acclimatamento, allora materia sconosciuta. Si sapeva che "più si saliva, peggio si stava" e ci si limitava a sostare qualche giorno al campo, a bere tè, fumare sigari e consumare morfina e cognac. Crowley e compagni salivano finché resistevano, poi tornavano quando il corpo cedeva. L'adattamento si faceva tra un'invocazione esoterica e un bicchiere.

Tre anni dopo, nel 1905, Crowley si lancia nell'avventura del Kangchenjunga, la terza montagna del mondo con i suoi 8.586 metri. Il carattere di Crowley, arrogante e dispotico, irritò i compagni e i portatori che lui non esitava a picchiare e a maltrattare, ma giunsero comunque a circa 6.500 metri: sinché parte della squadra decise di scendere nottetempo dal Campo 5 (Crowley era contrario) e furono travolti da una valanga che ne uccise quattro. Uno svizzero, che era rimasto con Crowley, si precipitò a soccorrere i superstiti, lui invece rimase in tenda a fumare dopo aver detto che non glene fregava niente perché erano stati imprudenti. Non gli fu perdonato.

In parallelo nasceva l'altro Crowley. Nel 1898 si era avvicinato all'Ordine Ermetico della Golden Dawn: Alexander divenne Aleister. Nel 1904, al Cairo, dichiarò di aver ricevuto la rivelazione di Aiwass, entità ultraterrena che gli dettò il "Liber AL vel Legis" che si trasfuse nella religione di Thelema: "Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge", un vangelo di individualismo, misticismo ed erotismo che anticipava il libertarismo hippie di sessant'anni dopo. L'alpinista e l'occultista, in comune, avevano la sfida alle regole e il gusto per l'estremo e la teatralità egotica. Come D'Annunzio (ma più caotico) Crowley recitava se stesso come opera d'arte vivente: ma se il Vate si fece monumento nazionale, Crowley preferì demonizzarsi. Non era satanista, lo disse mille volte, ma per la stampa divenne "l'uomo più perverso del mondo", la madre lo chiamava Bestia già da ragazzo, lui prese il soprannome alla lettera. Droghe, sesso, bisessualità, pittura, scacchi, romanzi visionari: un autodidatta universale.

Nei suoi rituali praticava sesso con uomini e donne indifferentemente, e mescolava invocazioni, droghe e flagellazioni. Invitava i discepoli a incidersi simboli sul corpo, a bere sangue animale mescolato a vino, a sacrificare capre durante cerimonie notturne. In Italia, a Cefalù, all'Abbazia di Thelema, affrescò le pareti con scene pornografiche di un realismo ossessivo. Un giovane adepto morì dopo aver bevuto acqua infetta durante un rituale, episodio che scandalizzò: per i giornali era la prova che praticavano sacrifici umani. Crowley amava circondarsi di simboli macabri, usava feci e urine nei rituali per "spezzare i tabù borghesi" e annotava ogni amplesso come se fosse un esperimento di laboratorio; un libertinaggio che anticipava un certo surrealismo, ma che per l'Inghilterra vittoriana era pornografia blasfema. Nel 1923 Benito Mussolini, che non era certo un moralista, lo espulse dall'Italia per indegnità morale.

Il filo con la montagna in realtà non si spezzò mai. Anni dopo scrisse che il vero errore del Kangchenjunga non fu la tragedia (i morti) ma l'aver sottovalutato la montagna come simbolo, la vetta come rivelazione, la caduta come rito. Alcuni discepoli lessero quelle cronache come delle allegorie occulte: la montagna-tempio, la cordata-confraternita, la scalata-iniziazione: che diverrà, per buona parte, retorica dell'alpinismo.

Poi il mito di Crowley fu adottato dal rock. Negli anni Sessanta la sua faccia finì su Sgt. Pepper's dei Beatles, poi venne Jimmy Page dei Led Zeppelin che comprò la sua villa scozzese di Boleskine House, e, a Londra, aprì una libreria esoterica chiamata Equinox; Mick Jagger, che ammise di conoscere molti crowleyani, rivendicò Sympathy for the Devil come gioco d'intelligenza più che culto satanico; David Bowie infilò i suoi motti in After All e in Station to Station, dove Cabala, magia e cocaina si confondevano in un'orgia sonora. Infine Ozzy Osbourne, nel 1980, gli dedicò Mr. Crowley, un inno heavy metal che consegnò la Bestia all'immaginario del lato oscuro.

La storia alpinistica intanto era proseguita senza di lui: il Kangchenjunga fu conquistato solo nel 1955 dai britannici e il K2 dovette attendere il 1954 e la spedizione italiana. Le due montagne che Crowley aveva sognato furono vinte mezzo secolo dopo, da altri nomi: il suo restò relegato nelle note a piè pagina, tra mistiche e scandali. Oggi, nella storiografia alpinistica, Crowley è una specie di spettro: compare ogni tanto come nota di colore nelle cronache pionieristiche del Karakorum, ma quasi mai come protagonista.

Nella sessantina di libri scritti da Reinhold Messner (e li abbiamo letti tutti) il nome di Crowley compare di sfuggita solo nel 2021, in Lettere dall'Himalaya, dove citano alcune lettere dei pionieri: tra i nomi c'è anche un certo Aleister Crowley, uno che, come sulla neve, passò e lasciò un segno poi cancellato dalla tempesta che portava con sé.

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