Armi e politica: quell'Italia inerme sognata dalla sinistra

Il ritratto, piuttosto, è quello di un Paese prudente che partecipa con serietà a uno sforzo comune dell'Europa ma senza mettersi l'elmetto né brandire la baionetta

Armi e politica: quell'Italia inerme sognata dalla sinistra
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I soldi sprecati per la difesa, anzi per le armi: è questo il punto d'attacco privilegiato dalle opposizioni. Giuseppe Conte ha parlato di spese folli. E il Pd, su questo terreno, segue senza obiettare e senza correggere. Come l'intendenza di napoleonica memoria.

Una disamina oggettiva dello stato delle cose abbisogna di alcune premesse. In primo luogo: ci troviamo nel bel mezzo di guerre differenti ma comunque rilevanti in Ucraina e Africa. E al novero siamo costretti ad aggiungere il Medio Oriente, dove la pace ha mosso dei passi importanti ma non può ritenersi stabile. Va poi considerato come lo scenario internazionale stia cambiando. Non è più quello della globalizzazione. Non è più unipolare. E, per questo, gli Stati Uniti non garantiscono "difesa a buon mercato". Washington, anzi Trump, ci ha presentato il conto. Le potenze globali si trincerano nei propri interessi e quelle regionali difendono con le unghie i propri interessi. In questo mondo che si frantuma e nel quale tornano a contare le zone d'influenza, investire in sicurezza è un obbligo. L'Italia, per di più, si trova al centro del "secondo fronte". Quello che passa dal Mediterraneo e dall'Africa, dove interessi energetici, traffici, migrazioni e presenza russa si intrecciano in un equilibrio a dir poco fragile. Rinunciare a giocare un ruolo nel Mare Nostrum equivarrebbe ad abdicare all'interesse nazionale.

A fronte di questo quadro, il nostro Paese ha destinato nel 2025 31 miliardi di euro alla Difesa, pari all'1,5% del Pil: circa due miliardi in più dell'anno precedente. Se poi si integrano le voci che riguardano la Nato - missioni, programmi di ricerca, cooperazione industriale - la cifra tende verso il 2%, considerando anche le riclassificazioni contabili. Qui, però, i calcoli si fanno opachi: più politici che aritmetici. Nei prossimi tre anni, in ogni caso, si valuta un adeguamento graduale di circa 12 miliardi, sfruttando le clausole europee che consentono deroghe temporanee ai vincoli di bilancio. Quanto agli aiuti militari a Kiev, anche qui le stime disponibili smentiscono molta retorica. Se si considerano quelle del Kiel Ukraine Support Tracker - da maneggiare con cautela, poiché si basano sugli impegni annunciati dai governi e non sulle spese effettive, spesso coperte da segreto militare - l'Italia ha stanziato dall'inizio del conflitto tra 1,3 e 2 miliardi di euro: la metà della Polonia.

Difficile, con questi numeri, parlare di corsa sfrenata al riarmo. Il ritratto, piuttosto, è quello di un Paese prudente che partecipa con serietà a uno sforzo comune dell'Europa ma senza mettersi l'elmetto né brandire la baionetta. Va inoltre ricordato che Roma non ha ancora aderito al programma Purl, il meccanismo con cui i Paesi Nato acquistano armamenti americani per Kiev. Alcuni hanno già firmato; l'Italia non ancora. Non per disimpegno, ma per realismo imposto dai vincoli di bilancio.

Fissato che non ci si sta svenando, s'impone una domanda semplice che vorremmo fare innanzitutto all'opposizione: esistono alternative a questa linea? Certo, potremmo disarmare e mostrarci ignudi. Ma si rivelerebbe una pericolosa illusione. Tedeschi, polacchi e baltici lo sanno bene perché la frontiera si trova a un passo dalle loro case. Ma anche noi, piaccia o meno, siamo vulnerabili. Oppure, ammesso sia possibile, si potrebbe "mollare" l'Europa e trattare direttamente con gli americani. Ma poiché nessun banchetto è gratuito, qualcuno, in tal caso, ci definirebbe "cortigiani. Questa volta a giusto titolo.

Non resta, dunque, che perseguire un rafforzamento militare sostenibile, partecipare ai piani di riarmo europei, concorrere all'edificazione del pilastro europeo della Nato.

Si tratta, nella sostanza, di fare la propria parte per provare a contare di più e ad essere più autonomi nel mondo che verrà. Temevamo di doverlo spiegare al governo. Dover provare a farlo capire all'opposizione è una sorpresa e, francamente, è deprimente.

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