Patria e Putin, nei Balcani ora la guerra si fa coi murales

Sui palazzi le cicatrici delle bombe hanno lasciato il posto a graffiti settari. E da Srebrenica a Vukovar, il turismo non cancella le tensioni

Patria e Putin, nei Balcani ora la guerra si fa coi murales

I due turisti nord-europei che cercavano la tranquillità nel parco naturale serbo di Tara non sembrano entusiasti. Eppure si guardano bene dal protestare per quella musica balcanica a 80 decibel che arriva da un banchetto di legno comparso davanti al loro giardino. Non lo fanno perché le scenate sono cose da slavi o latini, ma soprattutto perché ad accendere le casse è stata una vecchina che ha appena esposto la sua mercanzia: bandiere, memorabilia militari, vessilli con il teschio e lo slogan cetnico Za kralja i otadbinu («per il Re e per la Patria») e magliette con la faccia di Ratko Mladic, il generale all'ergastolo per il genocidio di Srebrenica. La scritta recita: «Serbian hero». La musica ad alto volume forse è il problema minore.

A quasi trent'anni dagli accordi di Dayton che misero fine alla guerra civile europea più sanguinosa dal '45 (140mila morti, 3 milioni di profughi) e a venticinque dal bombardamento Nato su Belgrado che rovesciò il regime di Slobodan Milosevic, la ex Jugoslavia non è più ovviamente il cumulo di macerie e fosse comuni che si trovarono di fronte i Caschi Blu e le ong a massacri appena compiuti. Se Slovenia e Croazia sono ormai ingranaggi oliati dell'Unione Europea e il Montenegro vive un boom con gli investimenti russi e arabi, Bosnia e Serbia stanno faticosamente cercando di trovare una loro via alla coesistenza e alla crescita. L'iter per l'ingresso di entrambi nella Ue procede lentamente, ma la ricostruzione è a buon punto e l'apertura al turismo ha portato orde di visitatori a Sarajevo e Mostar. Eppure, viaggiare in auto fra le zone di confine restituisce un'immagine più contrastata dell'area. E i dettagli suggeriscono che sotto la routine covano ancora braci di tensione, un po' come quando si va ospiti a casa di coppie apparentemente innamorate, ma che alla prima occasione si lanciano sguardi torvi, se non i piatti.

Il fatto è che il ricordo da queste parti è una necessità feroce. Le targhe commemorative, come quella sullo stadio Maksimir di Zagabria dove il calciatore Zvonimir Boban colpì un poliziotto filo-serbo nella partita del 1990 che per la prima volta svelò al mondo la crisi, qui non si contano. E pian piano che si scende nella Slavonia fino alla frontiera serbo-croata, la Krajina orientale, si moltiplicano anche i graffiti. A Osijek e soprattutto a Vukovar, città simbolo della resistenza croata contro i serbi, i disegni della torre dell'acqua bombardata fanno capolino ovunque, accanto agli stemmi delle squadre di calcio.

Già, il calcio. Qui mostra il suo volto più primordiale, quello tribale del «noi» contro «loro», per cui il confine fra una partita e lo scontro a fuoco diventa più labile che altrove. eljko Ranatovic, la «tigre» Arkan che guidava i paramilitari serbi che facevano il lavoro sporco, aveva raccolto le sue milizie fra gli hooligans della Stella Rossa Belgrado, i Delije. Per questo oggi fa piuttosto impressione vedere un carrarmato T-55 parcheggiato davanti alla curva dello stadio «Marakana». Soprattutto perché sulle gradinate accanto spicca il graffito di una ajkaca: il berretto militare serbo. Quello indossato da Mladic.

Lo stesso berretto si scorge qui e là nella Republika Srpska, che dal 1992 al 1995, guidata da Radovan Karadzic, fu teatro dei peggiori orrori e che oggi è una delle due entità amministrative della Bosnia. Il berretto campeggia per esempio all'entrata di Viegrad, la città del romanziere premio Nobel Ivo Andric, quella del celebre ponte sulla Drina eretto nel '500 da Mehmed Paa Sokolovic, simbolo del multiculturalismo di cui la Bosnia è intrisa. Viegrad fu teatro di una pulizia etnica spietata, con i cadaveri dei bosgnacchi islamici gettati dal ponte. Oggi non si vedono né pietose iscrizioni, né bandiere bosniache, anche se formalmente siamo in territorio bosniaco. I musulmani sono il 5%, sugli edifici sventola il vessillo serbo e i cartelli stradali sono in cirillico. Così come in cirillico è l'altro graffito, a pochi metri dal ponte. Recita: «Quando l'esercito tornerà in Kosovo». A occhio, non sarà una visita di cortesia.

Fra i serbi si respira - sotterraneo, sottinteso - il peso dei conti aperti con la storia del Novecento, che parte dalle due guerre mondiali combattute dalla parte «giusta» (la seconda contro gli odiati vicini, gli ustascia filo-nazisti) e arriva ai 600mila serbi cacciati o massacrati dai croati tra il '91 e il '96, e dei quali si parla molto poco. Un senso di ingiustizia che ancora alimenta una frustrazione nazionale per i verdetti dell'Aja, vissuti come una punizione non solo dei criminali di guerra, ma di tutti i serbi. Il risultato è una sorta di paranoia collettiva, il piacere superomistico di sentirsi soli contro tutti, per una nazione che è stata «muro» della cristianità di fronte agli ottomani. In quest'ottica, si comprendono l'enorme cartellone sulla campagna di arruolamento nell'esercito - simbolicamente issato sul ministero della Difesa di Belgrado bombardato dalla Nato e lasciato volutamente distrutto -, e lo striscione che nella centralissima piazza della Repubblica sostiene che «l'unico genocidio nei Balcani è stato contro i serbi». Ma che in mezza Bosnia sembri di essere in Serbia è piuttosto impressionante.

Ci sono i minareti, certo, che spuntano qui sulle colline come le infinite lapidi che sbocciano fra i meli e gli orti. C'è il commovente cimitero di Potocari, con le 8.372 lapidi bianche che ricordano i musulmani trucidati, dai 13 anni in su. Ma nel centro di Srebrenica, accanto a un kebabbaro, oggi è appesa una foto di Putin, le cui magliette vengono vendute ovunque, insieme a quelle del tennista Novak Djokovic. In onore dell'amico Zar, la strada che attraversa l'Erzegovina è punteggiata di enormi «Z», il simbolo dell'invasione russa in Ucraina. Un po' viene da chiedersi chi l'abbia davvero vinta, quella guerra.

Anche dall'altra parte i muri restituiscono cicatrici di memoria. A Sarajevo, le famose «rose» - i segni delle granate sui palazzi - sono sempre meno. La Vijecnica, la sede del municipio e della biblioteca data alle fiamme, è tornata a splendere. In compenso, sulle alture di Grbavica si legge ovunque «Remember Srebrenica». Da questo quartiere sparavano gli obici che in 1.425 giorni di assedio fecero 11.541 morti. Pochi km sopra, sul monte Trebevic già sede delle Olimpiadi invernali del 1984, la comunità serba nel 2008 aveva eretto una croce ortodossa. Era troppo, fu abbattuta la notte dell'inaugurazione.

È come se la popolazione bosniaca marchiasse i muri per non dimenticare, magari cancellando i cartelli in cirillico come nella zona di Medjugorjie, o come a Mostar, dove i tifosi bosniaci del Velez e croati dello Zrinjski si dividono i graffiti. Al contrario, la popolazione serba di Bosnia, guidata dal discusso leader Milorad Dodik, sui muri mette per iscritto il disagio non rassegnato dei vinti; dà voce alla tentazione di spostare più in là l'asticella di una fantomatica riscossa. Militare in Kosovo, secessionista in Bosnia, magari con un referendum.

Gli osservatori internazionali hanno lanciato l'allarme per quei territori, in cui la propaganda nazionalista oggi rialza la testa. Rimane da capire se questo sentimento sciovinista rimanga confinato ai graffiti e ai souvenir, per quanto violenti e di cattivo gusto, oppure se queste siano serie avvisaglie di nuovo odio etnico.

Per ora, viene in mente l'agghiacciante messaggio rivolto dal generale Mladic ai bosniaci di Srebrenica

nel 1995: «Opstati ili nestati». Sopravvivete o sparite. I tanti che non sono sopravvissuti sono ricordati dai memoriali; i tantissimi che sono spariti per non tornare sono dimenticati in queste strade gonfie di assenza.

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