“Come se Rocco Siffredi facesse un film senza la m…”. “Prossimo passo l’acqua disidratata”. “Se non costa almeno 60 euro non la voglio”. I leoni da tastiera (o forse, trattandosi di cibo, dovremmo dire: da pastiera) non potevano farsi sfuggire l’occasione di dire la loro sull’ultima trovata di Carlo Cracco, che poi ultima non è perché è di qualche tempo fa. La ricetta della “Milano che avanza”, una finta cotoletta che gioca sull’assenza della carne di vitello, e in cui la Milano che avanza è sia quella che guarda al futuro sia quella che fruga tra gli ingredienti rimasti dai pasti precedenti. Una ricetta insomma che gioca sulla sostenibilità, sul recupero, sulla memoria, e al contempo una provocazione intellettuale, che ha mandato in visibilio i gourmet di tutta Italia e i fan dello chef vicentino ma che invece ha scatenato gli hater sui social, coloro che spesso andando ben al di là delle loro competenze non perdono l’occasione di attaccare i personaggi famosi.
Va detto che a Cracco in particolare non ne perdonano una. Ci sono chef forse più bravi, certamente più costosi, indubbiamente più stellati (lui una un “macaron”, mentre ad esempio Antonino Cannavacciuolo tre ma nessuno gli rompe le scatole), ma lui, volto televisivo ante litteram, forse per quel sospetto di spocchia che si porta dietro (chi lo conosce sa bene che invece è una persona deliziosa) è certamente il personaggio più preso di mira della scena gastronomica italiana. Fa la pizza e gli si contesta il fatto che è veneto, che la pizza non si fa così, che costa troppo. Fa le pubblicità e gli si contesta che non sta bene che un gourmet racconti i prodigi delle patatine in busta. I monelli di Ultima Generazione decidono di prendere di mira un ristorante per fare un po’ di cagnara e dire allo chef di turno di cucinare per i bisognosi e non per gli altospendenti e dove vanno? Ma certo, da Cracco in Galleria, forse perché è il ristorante più ZTL d’Italia, ed è anche bello comodo, vuoi mettere piuttosto andare a Castel di Sangro o a Brunico?
Insomma, il povero Cracco, che quest’anno compirà sessant’anni, ci avrà fatto il callo all’ennesima polemica social. Quella sulla “Milano che avanza”, la cotoletta-non-cotoletta che lui ha avuto l’ardire di raccontare in un lungo video girato per Italia Squisita e che evoca il grande classico della cucina meneghina ma al posto della carne piazza una bella fetta di pane del giorno prima, bagnata dei succhi del vitello estratti con lo schiacciapatate (alla fine il vitello c’è, lo vedete?), impanata in farina, uovo e fiocchi di pancarré e cotta in burro chiarificato e olio extra vergine e poi condito con un fondo di manzo, salvia, vino bianco e soprattutto aceto, a rievocare un carpione. Ah, alla fine c’è anche una cipolla in agrodolce ad arricchire l’esperienza sensoriale.
Insomma, un piatto molto meno povero di quanto faccia immaginare lo scandalo di chi parla di “una fetta di pane al posto della ciccia”. E soprattutto un gioco di equilibrismo tecnico, perché chi ha provato la “Milano che avanza” (io non sono tra questi) garantisce che l’illusione è perfetta. Del resto, “il pane avanza tutti i giorni – dice lo chef di Dinner Club – e noi abbiamo cercato di nobilitarlo dandogli in gusto della carne”. Il fatto è che a lui “interessa il gusto, la texture, l’essenza della carne, non la sua fibra”. Poter riprodurre le sensazioni di un ingrediente ricco utilizzando elementi poveri è da sempre una delle sfide dell’alta cucina. A fare alta cucina con il caviale e il tartufo, s’ bboni tutti, insomma.
L’operazione non è stata evidentemente capita fino in fondo, ma va detto che tra i paradossi della gastronomia c’è che chi ha il pane spesso non ha o denti, e che chi si offende per la presunta presa in giro è esattamente chi non va al ristorante stellato perché interessato solo all’aspetto calorico del cibo e non in grado di apprezzare l’alta cucina in quanto disciplina colta e intellettuale e non solo riempipanza. Mi diceva qualche mese fa Mauro Uliassi, chef tristellato di Senigallia, che “non si mangia più per la fame contadina dei nostri nonni ma per puro piacere. E il piacere si muove su altri registri che sono quelli del desiderio. Devo farti desiderare le cose oppure crearti un interesse”. Insomma, esistono migliaia di ristoranti dove sfamarsi, l’alta cucina è un territorio in cui ci sono altre regole, in cui un pane imbevuto di carne, può essere più buono di un filetto. Un territorio in cui contano l’idea e la tecnica per metterla in atto, in cui contano lo studio, la difficoltà, la narrazione, la riduzione all’essenza e non solo il “mi dai del pane per 40 euro?”.
Ve detto peraltro che al momento nel menu di Cracco in Galleria la “Milano che avanza” non c’è, né nel menu degustazione a 215 euro né nella carta. Si tratta di una ricetta di qualche anno fa, rilanciata solo dal video di Italia Squisita in cui tra l’altro ai fornelli c’è Luca Sacchi, il sous-chef di Cracco. Insomma, la polemica è rafferma ben più del pane di recupero.
E comunque in carta attualmente c’è un piatto che sposa la stessa filosofia, “Come una trippa alla milanese”, in cui un ingrediente umile, le mafaldine, un tipo di pasta con i bordi arricciati, imita la consistenza della trippa laddove il sapore è garantito dalla presenza del suo fondo. Magari tra un paio di anni qualche genio della gastronomia da social si accorgerà anche di quest’altra “provocazione”.