Letteratura

Quella destra vittima di tanti inganni

In Italia, depennati liberali, fascisti e monarchici, ai conservatori rimasero solo seconde scelte

Quella destra vittima di tanti inganni

Fra i tanti (troppi?) libri che si interrogano su che cosa sia la destra in Italia, questo di Paolo Macry, La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni (Laterza, pagg. 157, euro 16) è il più controcorrente nell'approccio come nello svolgimento. Storico di lungo corso, Macry rovescia un luogo comune, quello cioè che un Paese antifascista sia un Paese di sinistra. Non a caso, il primo paradosso della nostra storia repubblicana consiste nel fatto che «per una somma di motivi, in Italia la sinistra non ha mai vinto le elezioni». C'è di più: se si esclude il Fronte popolare del 1948, anch'esso comunque uscito sconfitto dalle urne, la sinistra «non si è mai presentata alle elezioni come tale». Questo, naturalmente, non vuol dire che non sia mai andata al governo, ma che ci è sempre andata all'interno di coalizioni «che infatti venivano qualificate di centro-sinistra e che quasi sempre furono guidate da presidenti del Consiglio non di sinistra». Detto in altri termini, «nei Paesi europei, una volta o l'altra, la sinistra è diventata maggioritaria, conquistando perciò il diritto di governare. In Italia, mai».

Lasciando da parte il perché di questa singolarità, di cui l'elemento principe resta l'aver avuto il più grande Partito comunista d'Occidente, con cui era impossibile allearsi, ma di cui era impossibile contestare la leadership, l'altro paradosso che emerge è che a un Paese non di sinistra non corrispondesse, politicamente parlando, un Paese di destra... Come scrive giustamente Macry, se si ripercorre la storia repubblicana, sia nelle sue fasi germinali sia nel corso di tutta la prima Repubblica, «le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali. Una condizione di subalternità che ebbe a che fare con le loro scelte inadeguate e, non di meno, con un quadro politico dominato dai partiti - la Democrazia cristiana, le sinistre - che le sovrastarono e ne prosciugarono l'elettorato potenziale. Larga parte dell'opinione pubblica, di conseguenza, intrattenne con la democrazia rappresentativa un rapporto tortuoso, insincero».

Macry chiama tutto ciò «un inganno politico». Fu un inganno «tagliare di netto le radici con i decenni prefascisti», in sostanza accusando la cultura politica liberale «di aver aperto le porte alla dittatura». Fu un inganno «l'assunzione dell'antifascismo a religione civile», dimenticando da un lato il consenso di massa al regime, ma «rinunciando, al tempo stesso, a epurare la società fascista, che perciò poté sopravvivere pressoché intatta nell'Italia antifascista». E infine, fu ingannevole «il profilo assunto dalla destra neofascista» che da un lato si teneva stretto il proprio «ghetto identitario», ma dall'altro si muoveva «nello spazio tipico, in ogni Paese europeo, di una destra moderata e anticomunista, di estrazione impiegatizia e urbana, moderatamente protestataria, insofferente alla politica ufficiale e di umori qualunquisti».

In sostanza, depennati liberali, fascisti e monarchici (con il referendum che ne sancì il loro non fare parte della nuova Italia...) «quale approdo offrì la democrazia al paese di destra? Quell'Italia finì per confluire in culture politiche che le erano in parte estranee. Si rifugiò per decenni nel ventre del partito dei cattolici», una «seconda scelta», insomma. Ma poiché la Dc, nel frattempo, «stringeva accordi con le sinistre, i suffragi del paese di destra finirono per essere portati a sinistra. Un altro inganno».

Fermiamoci un attimo. Nell'Italia repubblicana sino a Tangentopoli, quello che emerge dall'analisi di Macry è una sorta di «conservatorismo impossibile», ovvero la nascita e l'affermarsi di un Partito conservatore tipico di una democrazia europea, una classica destra ideologico-politica, dunque. Questa nascita non è però solo ostacolata dalle contingenze politiche e partitiche da lui ricordate: affonda in realtà nella nostra storia nazionale, risorgimentale e unitaria, una storia che è rivoluzionaria e non conservatrice, che infatti fa politicamente tabula rasa del passato. L'Italia postrisorgimentale vedrà alternarsi fra loro riformisti e massimalisti all'interno dello stesso sistema di valori. Non c'è in essa spazio per un conservatorismo politico, come in Francia, come in Inghilterra. L'errore sta nel confondere i moderati con i conservatori, ma si tratta in realtà di due cose del tutto differenti fra loro. Il cosiddetto boom o «miracolo economico» degli anni Cinquanta è da questo punto di vista esemplare, frutto cioè di un'Italia moderata, ma modernizzatrice nei suoi desiderata e nella sua fiducia verso il futuro, non certo di un'Italia conservatrice, anche perché c'era poco o niente da conservare...

Alla certificazione del «conservatorismo impossibile» di una destra italiana, la Democrazia cristiana, come osserva Macry, diede un notevole contributo: da un lato sfruttando le potenti radici di massa della storica religiosità del Paese; dall'altro, all'interno di quello che era «il bipartitismo imperfetto» venutosi a creare in pratica dal dopoguerra, fungendo da polo opposto alla sinistra, pur continuando a dichiararsi di centro, «mai di destra», e però «un partito di centro che guarda a sinistra», pur, infine, dopo il decennio della ricostruzione, sterzando risolutamente a sinistra nelle scelte e nelle coalizioni di governo.

La caduta del Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica, se da un lato hanno terremotato il quadro politico-partitico italiano, dall'altro ne hanno ripresentato intatti quelli che ne erano i fondamentali. Resta «l'equazione tra anticomunismo e fascismo», imposta a suo tempo dalle sinistre e che «permetteva loro di combattere gli anticomunisti come fascisti e di autolegittimarsi in quanto antifascisti». È una condizione necessaria, ma non sufficiente però a togliere quelle sinistre dalla minorità elettorale che le è sempre stata propria e contro la quale l'onda lunga dell'egemonia culturale è solo in parte riuscita a limitare i danni.

Sul fronte opposto si ripresenta il fantasma di una destra politica che fatica a incarnare una maggioranza del Paese che è umorale, estranea alla «religione dell'antifascismo», ma non per questo reazionaria e conservatrice, tantomeno fascista, diffidente nei confronti della politica e dei partiti, e quindi populista, mina vagante e insieme coscienza critica eternamente in attesa di trovare la voce che realmente la rappresenti.

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