Pazzia al potere

Un disturbo mentale (lieve) aiuta a diventare leader politico. Churchill e Lincoln depressi cronici, Gandhi e Martin Luther King empatici per disperazione. Kennedy? Uso e abuso di steroidi

Pazzia al potere

Cosa accomuna Abramo Lincoln, Adolf Hitler, Winston Churchill, Martin Luther King, John Fitzgerald Kennedy e Ghandi? Una salute mentale a tratti instabile che si rivela a sorpresa un'arma a favore. Una depressione sotto controllo, un leggero disturbo bipolare, uno spettro autistico sottosoglia o ad alto funzionamento, perfino un velo di psicosi si rivelano un aiuto alla creatività e alla capacità di reazione dei grandi personaggi. La parola chiave è «neuroatipia», una forma di anticonformismo radicale che nasce dalla diversità qualitativa nel ripensare i concetti ordinari. Questa almeno è la convinzione anche contestata, in tutto o in parte, di Nassir Ghaemi, professore di Psichiatria alla Tufts University School of Medicine e alla Harvard Medical School di Boston. Ghaemi pubblica ora Una straordinaria follia. Storie di disturbi mentale dietro a grandi leader (prefazione di Liliana Dell'Osso, presidente della società italiana di psichiatria, Apogeo, pagg. 332, euro 25). Ghaemi si basa su testimonianze storiche ma anche su prescrizioni farmacologiche e cartelle cliniche, soprattutto in uno dei casi clinici più interessanti, cioè John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti. Fu Aristotele il primo a osservare una correlazione tra un certo umore e capacità fuori dal comune: «Per quale ragione gli uomini eccezionali, in filosofia, politica, poesia o arte, sono manifestamente malinconici e alcuni al punto da essere considerati matti a causa degli umori biliari?» (Problemata, Problema XXX).

Ma ora veniamo ad alcuni pazienti d'eccezione. Venga avanti Winston Churchill. Figlio di Randolph, morto in stato di follia, Winston affrontò la depressione. La figlia di Winston, Diana, non ci riuscì e si uccise con una overdose di barbiturici. Churchill era perfettamente consapevole di essere vittima della depressione. Ne parlava apertamente e la descrisse come un «cane nero», sulla scia dell'amato scrittore Samuel Johnson (1709-1784). L'attacco più grave colpì Winston nel 1910: era uno dei momenti di suo massimo successo e ricopriva la carica di ministro degli Interni. Ma la depressione non era tutto. Infatti abbondano le descrizioni di Churchill in preda a sintomi lievemente maniacali. Era estroverso e non di rado impulsivo. La forza esplodeva di notte, quando, in accappatoio svolgeva gran parte del suo lavoro e dettava i suoi libri. Churchill si difendeva con gli alcolici ma anche con le anfetamine prescritte da Lord Moran, il suo medico. La depressione, sostiene Ghaemi, lo aiutò a essere realista di fronte alla Germania di Adolf Hitler e il suo carattere all'occorrenza energico fece il resto.

Tocca ora ad Abramo Lincoln. Anche il 16° presidente degli Stati Uniti ebbe numerosi episodi depressivi. Nel 1841, il dottor Anson Henry, sottopose Lincoln a terapia. Un amico raccontò: «I medici dicono che è a un passo dall'essere un perfetto lunatico per tutta la vita. È stato completamente matto per un po' di tempo, non è stato in grado di occuparsi dei suoi affari». La depressione lo rese empatico verso il dolore altrui. Proprio nel 1841 rimase sconvolto alla vista degli schiavi incatenati su un battello a vapore. La scelta di battersi per l'abolizione della schiavitù deriva anche da questa accesa sensibilità. Depresso empatico e funzionale fui anche Ghandi, vittima di tre episodi maggiori, e da adolescente tentò il suicidio. Anche Martin Luther King era depresso (non cronico) e tentò il suicidio: per due volte. Nella descrizione di colleghi e amici, la disperazione diventa il motore invisibile della iper attività del reverendo. In molti, nella parte finale della sua vita, fecero pressioni perché si rivolgesse a uno psichiatra. Ma King non credeva alla malattia mentale e rifiutò il consiglio. Pensò piuttosto che la sua rabbia dovesse essere sfruttata per combattere in favore dei diritti civili.

E siamo a JFK. Il giovane John era sempre malato, aveva un morbo di Addison non diagnosticato, ovvero una patologia del sistema immunitario. Quando il morbo lo lasciava in pace, il comportamento di John era ipertimico. In psicopatologia, l'ipertimia è l'esagerazione del tono affettivo con impronta ora nettamente euforica (maniacale) ora depressiva (melancolica). Il dinamismo era pronunciato, l'ipertimia di JFK virava decisamente in direzione maniacale. In un giorno, il presidente poteva ricevere un centinaio di persone nello studio Ovale. Due mesi dopo il giuramento aveva emesso un numero insolitamente alto di messaggi ufficiali, raccomandazioni legislative, discorsi pubblici, comunicati ai Capi di Stato esteri, ordini esecutivi e proclami. Ogni giorno rispondeva personalmente a duecento lettere dei cittadini comuni. Le cartelle cliniche mostrano un abuso di steroidi anabolizzanti a base di testosterone, esattamente i farmaci usati dai culturisti, per il loro effetto psichiatrico. Le dosi erano alzate, e accompagnate da anfetamine, nei giorni più impegnativi. La bulimia sessuale diventò una ossessione. Nel 1962, ci fu un «colpo di Stato medico». I suoi dottori riuscirono a limitare l'abuso di steroidi. Lo stato mentale e fisico migliorò proprio in tempo per affrontare e risolvere la crisi di Cuba, il momento in cui la Guerra fredda sembrò davvero degenerare in un apocalisse atomica.

Adolf Hitler, a detta di Ghaemi, era un paziente bipolare e schiavo delle anfetamine, sparate

direttamente in vena. Ma basta questo per spiegarne la malvagità? No, anche perché JFK, con un quadro clinico simile, si era dimostrato un buon presidente. Dunque il collegamento tra disturbi e scelte non è così automatico.

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