Dove soffiano "I venti" di Vargas Llosa

Dove soffiano "I venti" di Vargas Llosa
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I venti scritto nel dicembre 2020, pubblicato su Letras Libres nell'ottobre 2021 non è, secondo i balordi della cronologia, l'ultimo lavoro di Mario Vargas Llosa due anni dopo, è uscito Le dedico mi silencio : è quello "testamentario". La trama è semplice. Un vecchio, perduto in una Madrid del futuro prossimo, in prossimità del disastro interiore, ricapitola la propria vita, impreca contro l'amico Osorio, ricorda Carmencita, "mia moglie per molti anni", mollata per una voglia pelvica, per l'estro "di questo pisello che adesso non mi serve più a niente, se non a fare pipì". Eletto dallo stigma di un nobile livore, questo vecchio si scaglia contro i dolmen del progresso, sbriciola gli idoli della modernità: che senso ha un mondo "in cui ciò che in passato chiamavamo arte, letteratura, cultura non è più frutto della fantasia e dell'abilità di singoli creatori, ma è prodotto da laboratori, atelier e fabbriche"? Che senso ha vivere senza fare l'amore, senza mangiare carne e bere vino, ossessionati dal culto sinistro dell'igiene, dal mito della salute? Per altro, "nonostante i tanti progressi, non siamo riusciti a eliminare le guerre, né gli incidenti nucleari, il che significa che, per quanto sia progredito il mondo, da un momento all'altro potrebbe scomparire".

Per voce del vecchio, Vargas Llosa scrive una specie di manifesto dei conservatori europei; le sue osservazioni sono come sempre corrosive, al veleno, dunque salutari. Eccone alcune. Il cellulare è l'"inceneritore di tutte le cose genuine e autentiche, praticamente scomparse in questo mondo dove regnano e sfolgorano soltanto cose posticce e artificiali"; la Chiesa ha "firmato il proprio certificato di morte quando ha cominciato a modernizzarsi, quando il bastione del maschilismo e del conservatorismo, dell'intolleranza e del dogmatismo che un tempo rappresentava ha iniziato a indebolirsi, a creparsi, a fare concessioni"; gli adolescenti che "si battono perché l'intero pianeta si nutra solo di frutta e verdura" sono una delle ragioni dell'indecente decadenza del nostro tempo. Le conclusioni etiche sono atroci ("Di fatto abbiamo perso la libertà senza rendercene conto, e il peggio è che siamo contenti e ci crediamo persino liberi! Che idioti!"); le considerazioni estetiche felicemente violente: "noi lettori legati alla tradizione, al romanzo vero, quello di Cervantes, di Tolstoj, di Virginia Woolf o di Faulkner, non possiamo far altro che leggere i romanzieri morti e dimenticarci quelli vivi".

Faremmo un errore, però, a considerare questo racconto lungo che a me rammenta il vorticoso Everyman di Philip Roth come un testo politico. In verità, I venti è una fosca riflessione pur non priva di tenerezze sulla demenza senile di cui soffre il protagonista. Insieme al mondo, è l'uomo, nel suo essere, a svanire: il passato è oscuro, smarrita la via di casa. Il vecchio piange. La rabbia cristallizza il suo dire in un labiale Tiresia. Il corpo, nel crollo, è soltanto una cosa vizza, che muore.

L'uomo "poco meno di un dio", come dice il Salmo ottavo, è ora mera merda, è un vecchio che defeca senza accorgersene, "ero l'uomo-cacca. Ho provato un grande ribrezzo per me stesso". L'ultima parola è il fuoco, un verbo che arde. Vanitas. Ecco: I venti è il Qoelet di Mario Vargas Llosa.

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