Il petrolio russo sotto sanzioni di cui l'Unione Europea e il G7 hanno imposto una restrizione agli acquisti tra bandi e price cap? Esce dalla porta e rientra dalla finestra. Lo conferma il più recente report del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), think tank di studio sul settore energetico. Nulla - formalmente - di illegale: le regole della globalizzazione, le clausole della nazione più favorita che equiparano i prodotti tra Paesi con accordi commerciali e l'opacità dei settori fanno sì che una volta che un prodotto ha raggiunto un dato Paese esso possa essere commerciato come se proveniente dallo Stato stesso. Ma questo ha permesso, secondo il Crea, a cinque Stati in particolare di diventare i "vincitori" della corsa alle sanzioni.
I Paesi che aggirano le sanzioni al petrolio russo
Questi Paesi comprano il petrolio russo di benchmark Urals che non trova sbocchi in Europa e lo rivendono in Occidente, spesso a prezzi maggiorati. Guadagnando sull'arbitraggio tra i diversi prezzi di riferimenti internazionali, fondati sui mercati maggiori sul petrolio Brent e Wti dal prezzo più alto dell'Urals. O, cosa più importante, esce sotto forma di prodotti raffinati a valore aggiunto che l'Ue compra a un valore più alto di quello che avrebbe se provenisse dalla Russia.
I cinque Stati sono tutt'altro che secondari: Cina, Emirati Arabi Uniti, India, Singapore e Turchia. Rispettivamente la prima economia e il primo rivale occidentale dell'Asia; la nazione a più alto tasso di crescita del Golfo; la nazione più popolosa al mondo e potenza emergente; la piazza finanziaria più importante del Sud-Est asiatico; il più strategico e ambiguo dei Paesi della Nato e quello più vicino a una capacità di mediazione con Vladimir Putin. Questi cinque Paesi hanno aumentato del 140% gli acquisti di petrolio russo dal 24 febbraio 2022, giorno dell'invasione dell'Ucraina, fino a un valore complessivo di circa 75 miliardi di dollari. E hanno inondato poi i mercati occidentali.
Il boom delle esportazioni in Occidente
"Le loro esportazioni di petrolio verso l'Occidente sono aumentate dell'80% in valore e del 26% in volume" dall'invasione russa, ricorda l'Independent. "I Paesi della coalizione dell'embargo e del price-cap, ovvero l'Unione Europea più Australia, Canada, Giappone e Stati Uniti, hanno "aumentato le importazioni di petrolio e prodotti raffinati dalla Cina del 93%, dall'India del 2%, dalla Turchia del 43%, dagli Emirati Arabi Uniti del 23% e Singapore del 33%". La grande discrasia tra l'aumento dei valori e quello dei volumi mostra che è nella benzina e negli altri prodotti raffinati (bitumi, nafte e via dicendo) che si è concentrata la fascia più strategica dell'aumento.
Il blocco dei Paesi che sanzionano il petrolio russo ha comprato da questi Paesi prodotti per quasi 46 miliardi di euro. L'Ue è stata la prima acquirente di tali prodotti con 19,3 miliardi di dollari di acquisti. Ma gli acquisti di seconda mano di prodotti russi riguardano ogni Paese. Dopo i Paesi dell'Europa seguono Australia (8,74 miliardi), Stati Uniti (7,21), Regno Unito (5,46) e Giappone (5,24). Tokyo ha rotto il price cap di recente acquistando a prezzo di mercato petrolio russo. Una mossa che ha fatto scalpore ma che probabilmente risponde più a esigenze pragmatiche.
Ovvero prendere atto che anche sul petrolio, piaccia o meno, staccare la Russia dai mercati mondiali è impossibile. O addirittura controproducente per i nostri sistemi economici. Costretti a pagare un prezzo ben più caro del previsto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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