
Sono nato a Bergamo, e mi porto addosso la mia origine con orgoglio, certo che, anche in caso di demenza, me la terrò con il medesimo animo grato fino all'ultimo istante.
Eppure mi sento e sono pienamente milanese. Non c'entra il fatto che da alcuni anni sono anche anagraficamente residente a Milano, quel sigillo me lo ero trovato addosso da prima, allorché, come gli artigiani delle valli orobiche, ci andavo e venivo quasi quotidianamente. Loro tiravano e tirano su muri, io giornali. Poi, per l'età, ho dovuto piantare felicemente le tende qui. Ma la milanesità non nasce da trafile burocratiche, non si acquisisce per nascita e neppure perché ci si dorme. Bisogna lavorarci e, a un certo punto, ce la si trova dentro e pure fuori. Lascio agli antropologi decifrarne le tracce: una lieve fluorescenza della pelle, un certo tono di voce, largo e svelto, per cui si accorciano le parole e ci si mette l'accento, un ritmo dei pensieri e del passo, un odore nel naso, misto di vaniglia e di officina. Sono connotati assorbiti per osmosi. Non so se valga anche il reciproco, se cioè abbia a mia volta lasciato una lievissima impronta sulla città nell'ambito della mia professione. Di certo Milano non oppone resistenza a chi ha il proprio talento da versarci, ti fa suo, senza omologarti allo stereotipo degli sketch televisivi sui meneghini. Questa è l'originalità di Milano. Non pretende l'esclusiva. Non costringe a rinunciare all'antico focolare genetico. Roma ti appiattisce ai suoi costumi e al suo gergo. Milano si innesta e ti fa fiorire, valorizzando il tuo Dna da ovunque tu arrivi. A una condizione: che lo scopo sia di lavorarci, innaffiandone il suolo di sudore (ma asciugandolo subito, per decoro) e sempre ricavandone il giusto. Esempi? I miei maestri sono stati il dalmata Nino Nutrizio, l'amalfitano Gaetano Afeltra, l'emiliano Enzo Biagi: erano milanesi più loro del panettone, ma in una forma che aveva il temperamento della loro terra. Ricordo con commozione specialmente il primo. Stefano Nino Nutrizio era stato in prigionia, in Africa e in Inghilterra, aveva assorbito nel suo grande cuore qualsiasi particella di umanità dovunque la scorgesse: e a Milano aveva trovato un campo fertile per seminarla. Si era gemellato con l'anima della città, stessa ambizione alla perfezione del fare, medesima generosità. Tant'è vero che assunse me. Alla sua morte volle farmi avere dalla vedova un pacchetto: conteneva la sua stilografica, quasi un passaggio del testimone. E anche della milanesità. Ebbi per amico Indro Montanelli, toscanaccio, toscanissimo, gli subentrai alla guida del Giornale, che aveva fondato, e accolse con piacere la notizia che fossi io a ereditare la sua scrivania. Anche lui milanese in pienezza, sia pure con l'accompagnamento di quattro fagioli toscani: si lavora bene solo qui. Non tutto fila liscio. C'è la povertà, ci sono senzatetto. Ma nessuno qui osa trattare male questi sventurati, oppure li osserva con condiscendenza, c'è rispetto: nessuno li scaccia se occupano di notte gli spazi meno freddi nella rientranza dei portoni. Ci sono associazioni che si occupano di loro come possono, senza giudicarli, «perché l'era un barbon» (che si pronuncia barbun), come cantava con affetto Enzo Jannacci: bisogna volergli bene a questa gente.
A questo proposito sta ben stampata nelle viscere di Milano la frase che il maestro dei maestri, il gran lombardo Alessandro Manzoni, mise in bocca a Renzo Tramaglino che, ramingo e fuggitivo, trovò il modo di aiutare persone più disgraziate di lui e constatò: «La c'è la Provvidenza!». Anche oggi. Amo fare due passi per le strade che Don Lisander così lo chiamavano percorreva nei dintorni di casa sua. Alzava lo sguardo alla Madonnina da piazza san Fedele andando verso il Duomo, notando che non ha le mani giunte, ma le scuote a braccia larghe: pregare sì, ma svelti. Lo stesso itinerario verso il Duomo e la Galleria calcò con baffi e stivali, fino all'ultimo dei suoi giorni, ultranovantenne, il feldmaresciallo Josef Radetzky. Aveva ideali politici avversi a quelli di Manzoni, durante le Cinque giornate del marzo 1848 stavano da parti opposte, eppure amavano entrambi Milano. Fu un grande amministratore, io gli erigerei un monumento, diede alla città che governò per decenni qualcosa di viennese, nell'estetica, nelle cotolette, nelle pasticcerie. Come lui, neppure io ho numerose amicizie a Milano, bensì pochissime, ma forse buone: di sicuro non potrei abitare in nessun altro posto al mondo se non qui. Certo, da quando ci lavoro, e sono cinquantacinque anni, sento sempre critiche a Milano. Nonostante i malumori dei milanesi, continua però a crescere e migliorare, tale e tanta è l'energia promanante da questa città senza rivali al mondo.
P.S. Mi chiedono quale sia il primo ricordo di Milano. Ci arrivai in treno, non so per quale motivo, avrò avuto sedici o diciassette anni. Vidi davanti a me il meraviglioso grattacielo Pirelli, ne rimasi incantato. Oggi, da consigliere regionale, lo frequento per mandato popolare, e dovrei essermi abituato; eppure, ogni volta che alzo lo sguardo e percorro la sua silhouette, mi commuovo. Sono un conservatore, come temperamento, e sono indifferente al fascino delle nuove torri che saltano su come grilli. Faccio eccezione per il (doppio) Palazzo della Regione, che si deve all'iniziativa del governatore Roberto Formigoni, ed ebbe la spinta del miglior sindaco di sempre, Gabriele Albertini. L'avevo ritenuto uno spreco, un doppio carciofo. Non mi ero mai neppure avvicinato. Finché ho osato, correndo il rischio del disgusto. Miracolo.
Visto dalla piazza sottostante questo colosso è un gigante buono ed elegante, un magnifico lottatore greco a due ante. Un capolavoro anche di economia. Non consuma niente e costa meno di mutuo rispetto a quel che si spenderebbe per affittarne l'equivalente in uffici. Molto milanese. Amen.