Le idee di Gentile e Croce da un Manifesto all'altro

Gli intellettuali fascisti davano un duro giudizio sull'Italia liberale. "Salvata" dagli antifascisti

Le idee di Gentile e Croce da un Manifesto all'altro

Cade in questi giorni il centenario dei due manifesti più famosi della storia politica dell'Italia contemporanea: quello pubblicato il 21 aprile 1925 a sostegno del fascismo, a prima firma di Giovanni Gentile, e quello con il quale il 1° maggio rispose Benedetto Croce. Le riflessioni che fin qui hanno ricordato l'avvenimento hanno fatto emergere due propensioni estreme. Entrambe rischiano di condurre fuori strada.

Da un canto, c'è chi degrada quella contesa ad avvenimento circostanziale, evidenziando la casualità con la quale si sarebbero aggregati i due campi opposti. Dall'altro, vi sono quanti ritengono che allora, in ambito intellettuale si fissarono definitivamente gli schieramenti, che da quel momento in poi si sarebbero conservati immutati. Le cose, nella realtà dei fatti, andarono in modo più complesso. I due documenti, infatti, si incastonano in un periodo di rivolgimenti politici e intellettuali. Essi, in tale cornice, designano una prima, fragile e precaria stabilizzazione intorno alle categorie di fascismo e antifascismo. Nulla di definitivo: in seguito non sarebbero mancati ulteriori scombussolamenti e, con essi, ulteriori passaggi di fronte.

Nel tentativo di comprendere questa dinamica, è bene prendere avvio dalla biografia dei capifila: Croce e Gentile, due tra i maggiori filosofi liberali dell'Italia novecentesca. Avevano condiviso un lungo sodalizio che dal piano intellettuale si era esteso fino ai rapporti familiari (uno dei figli di Gentile fu chiamato Benedetto). Lo sterminato epistolario, edito di recente dalla Fondazione Croce, ne è eloquente testimonianza. Esso ha anche il merito di evidenziare, accanto ai tanti punti d'accordo, le divergenze originarie che dal terreno filosofico hanno finito per riflettersi nella cifra complessiva dei rispettivi liberalismi. E che non vanno considerate del tutto estranee al divorzio tra i due, per quanto questo non avvenne per ragioni teoretiche. Si consumò, infatti, di fronte al bivio più drammatico che l'Italia, nella sua ancor giovane esistenza, si trovò a dover affrontare: che fare di fronte alla Grande Guerra e ai suoi rivolgimenti? Gentile nutrì il suo interventismo di una forte spinta volontaristica, vettore di speranza in una rinnovata unità della nazione. Il neutralismo di Croce, invece, derivò dalla preminente preoccupazione per le fratture che il conflitto avrebbe potuto incidere nel cuore dell'Europa. Gentile, che già godeva di grande influenza, divenne allora sempre più un ineludibile punto di riferimento dell'antigiolittismo, soprattutto per le generazioni più giovani (si pensi all'influsso che esercitò su Gobetti e Gramsci, solo per citare due nomi). Mentre Croce, sia sulla guerra che nelle scelte successive, restò legato a Giolitti condividendone analisi e posizioni.

Gentile, nel testo da lui redatto, tese ad accreditare il fascismo come un fenomeno ben piantato nella storia del paese. Avrebbe avuto radici profonde: «un movimento recente e antico dello spirito italiano intimamente connesso alla storia della Nazione». Il suo compito storico sarebbe stato, dunque, quello di ricondurre l'Italia nel solco del Risorgimento, sconfiggendo definitivamente lo Stato «che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico ed abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore». La Grande Guerra viene ritenuta l'antidoto a questa deriva. E il fascismo, erede legittimo del Risorgimento, sarebbe sorto per preservare il patrimonio etico che l'Italia aveva accumulato dal '15 al '18. Si comprende allora perché la risposta di Croce prenda le mosse dalla volontà di scagionare il periodo liberale dall'accusa di aver disperso, e infine tradito, la rivoluzione risorgimentale. Le difficoltà del cammino intrapreso dallo Stato unitario non sono certo negate. Croce, però, piuttosto che farle derivare da insufficienze congenite degli eredi dei national builders, le riconnette con le difficoltà dell'esperimento unitario. Si sarebbe trattato, a suo dire, di complicazioni che, «per ragione di contrasto», avrebbero dovuto spingere «a ravvivare () il pregio degli ordinamenti liberali, e a farli amare con più consapevole affetto».

Posti in tale prospettiva, possiamo scorgere nei due manifesti dei documenti che, nel vivo di un profondissimo rivolgimento politico-culturale, si contesero l'interpretazione del senso della nazione e della sua affermazione. Alcuni - con Gentile - ritennero che la libertà conseguita con l'unità era ormai da ritenersi solo esteriore e che, per rinnovare la coesione del corpo sociale, avrebbe avuto bisogno di coniugarsi con l'autorità. Altri - con Croce - voltandosi indietro, scorgevano una strada irta di difficoltà ma quel percorso appariva loro garanzia di accresciuta libertà e benessere.

Se scorriamo le firme dei sottoscrittori che si raccolsero sotto il manifesto Croce troviamo, tra gli altri, i nomi di Einaudi, Salvemini, Albertini. Nomi non scontati, perché appartenenti a intellettuali che erano stati dei fieri oppositori di Giolitti e critici acerrimi del percorso politico-istituzionale intrapreso dall'Italia liberale. Alcuni di loro, proprio a partire da quel momento, avviarono un ripensamento che li avrebbe condotti a revisionare le loro precedenti convinzioni. Riconsiderazioni che, poi, avrebbero nutrito la concezione della continuità della vita dello Stato nazionale.

Quella concezione che, non senza difficoltà, nel Secondo dopo-guerra si sarebbe infine affermata. Ed è proprio questa conclusione che, a posteriori, determina il vincitore della singolar tenzone che i due manifesti misero in scena. Se proprio d'indicare un vincitore v'è bisogno.

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