L'Africa come il West. Il volto povero dei coloni in cerca di fortuna

Belezi racconta una pioniera che non si arrende alla crudeltà della natura e degli "sciacalli"

L'Africa come il West. Il volto povero dei coloni in cerca di fortuna

Alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, ha destato un certo interesse il film Lo straniero, di François Ozon, tratto dall'omonimo romanzo di Albert Camus. Ambientato nell'Algeria degli anni Trenta del Novecento, racconta di un giovane pied noir, questo il nome dei francesi nati e/o residenti in quella che non è considerata né una colonia né un protettorato, ma un territorio metropolitano d'oltremare, che uccide a sangue freddo "un indigeno" Processato, Meursault, questo il suo nome, verrà alla fine condannato a morte, non per il delitto in sé, sulla bilancia della giustizia francese "l'indigeno" non ha un peso specifico riconosciuto, ma per la totale assenza di empatia che egli ha mostrato rispetto alla propria civiltà: non ha pianto per la morte di sua madre, non ha ambizioni né vita sociale, non è, in buona sostanza, un patriota fiero e degno d'esser tale. Il film, che rispetta fedelmente il romanzo, racconta un momento particolare della cosiddetta Algeria francese: a più o meno un secolo di distanza dalla prima occupazione militare di quello che era allora un territorio dell'impero musulmano, la pacificazione sembra infine conclusa, e quindi ogni ribellione domata, e la messa a reddito, ovvero lo sfruttamento delle risorse viene raccontato attraverso campagne pubblicitarie che ne esaltano ora il coté turistico, sole, spiagge, mare, locali notturni, sia le possibilità economiche: vigneti, frutteti, allevamenti di bestiame, edilizia Ciò che rimane singolarmente fuori in questa descrizione idilliaca è proprio quell'elemento "indigeno" che in Lo straniero incombeva come un fantasma e la cui esistenza era considerata poco più di un pittoresco accessorio, estraneo e a sua volta straniero a ciò che nella retorica ufficiale era comunque Francia, anche se posta sull'altro lato del Mediterraneo. Nel giro di vent'anni, tuttavia gli "stranieri" in Algeria sarebbero diventati proprio i pied noirs francesi, in un susseguirsi sanguinoso di resistenza, terrorismo, putsch militari, indipendenza nazionale i cui effetti continuano a riverberarsi ancora oggi, fra ammissioni di colpa, pentimenti, ritorsioni, schermaglie e sgarbi diplomatici. Non per nulla Ozon, che da parte materna ha a sua volta un'origine pied noir, ha detto di aver girato quel film per ricordare un passato che ancora si ostina a essere un presente.

Pur se non totalmente, l'assenza dell'elemento "indigeno" la si riscontra anche nel romanzo di Mathieu Belezi, Il passo falso di Emma Picard (Gramma/Feltrinelli, traduzione di Maria Baiocchi, 272 pagine, 19 euro), in un contesto però totalmente differente. Qui siamo alla fine degli anni Sessanta dell'Ottocento, quando la Francia imperiale di Napoleone III ha ormai consolidato i risultati di quella spedizione militare di trent'anni prima e avviato un massiccio processo di colonizzazione con cui da un lato cerca di liberarsi delle questioni politico-sociali, rivolte operaie, sindacalismo e repubblicanesimo, che ne ostacolano il cammino in patria, e dall'altro prova a fare di quello spazio geografico il suo Far West: pionieri, terre da coltivare, civiltà da impiantare Come tanti altri coloni, Emma Picard riceve dal governo venti ettari di terra: ha quattro figli, di cui due ancora piccoli, è rimasta vedova, in Francia, pensa, per lei e la sua famiglia non c'è futuro

Rifacendosi allo storico Pierre Darnon, Belezi ambienta la sua narrazione in un arco di tempo, quella fine anni Sessanta prima ricordata, che per l'Algeria fu particolarmente tragico: oltre mezzo milione dei suoi abitanti, su un totale di quasi tre milioni, vi persero infatti la vita "per un susseguirsi di piaghe: siccità, invasione di cavallette, raccolti inesistenti". È la natura, insomma a rivoltarsi contro Emma Picard e i suoi figli, ma a dar man forte alla natura ci hanno pensato le false promesse e le illusioni che in Francia l'hanno spinta a partire e che una volta in Algeria hanno come loro logico corollario gli sfruttatori e gli strozzini, lo sciacallaggio e la disonestà, il disinteresse politico e amministrativo. Precipitata in una logica di potere e di sopraffazione da cui è impossibile uscire, Emma sconta altresì uno status di colono e di colonizzatore di un paese occupato e dove "l'altro da sé", l'indigeno, viene tranquillamente lasciato morire, di fame, di inedia, di disperazione o, più sbrigativamente, viene schiacciato con la repressione militare nei suoi sporadici tentativi di rialzare la testa.

Ultimo di una trilogia (Cetait notre terre, Les vieux fous erano i titoli dei due romanzi che l'avevano preceduto), Il passo falso di Emma Picard è il secondo romanzo di Belezi uscito in Italia, dopo, lo scorso anno, Attaccare la terra e il sole, sempre per Gramma/Feltrinelli, ulteriore dimostrazione di quella riflessione di Ozon da noi riportata, sull'interesse che la questione algerina continua a suscitare in terra di Francia. Rispetto a quest'altro romanzo, che affidava il racconto a due voci narranti, una donna, Seraphine, e un anonimo soldato, qui la voce narrante è una sola, quella della protagonista, un soliloquio-confessione che parte dalla fine, il terremoto che, come un castigo di Dio, ha seppellito i suoi figli e la sua casa, per ripercorrere, con digressioni e salti nel tempo, una vera e propria via crucis in cui si mischiano orgoglio, ostinazione, lutti, amori e tragedie. "Apprendista colona" in quella "terra diabolica d'Africa che non ha mai voluto né mai vorrà saperne di noi", ciononostante Emma si aggrappa a quei venti ettari, anche se c'è chi cerca di metterla in guardia: "Questa terra non vale niente, perché renda ci vorrebbero capitali che tu non hai". È il suo orgoglio di "colona" che le "impedisce di smettere. E pazienza se Dio ci trova da ridire e mi abbandona; e ci infligge le peggiori prove del mondo. Mi hanno dato della terra perché la lavori. E io la lavorerò anche a costo di crepare".

Mentre in Francia la guerra franco-prussiana del 1870 spazza via Napoleone III e il suo impero e anche Algeri assapora il sogno repubblicano della rivoluzione, alla fine della storia Emma Picard si ritrova nella condizione di chi, "non essendo ricco", non "ha scelta né l'ha mai avuta". Quella terra a cui disperatamente, ostinatamente, ossessivamente, si è attaccata, sarà la sua tomba. Figura tragica e insieme figura epica, Belezi fa della sua eroina una sorta di "dannata della terra" di fanoniana memoria, ma all'incontrario, e però è la miseria e insieme la grandezza dei coloni ad emergere, la loro voglia di riuscire, il loro desiderio di avere un posto al sole che non sia solo o soltanto il frutto di una prevaricazione. Perché Emma, per quanto francese, per quanto catapultata oltre mare su venti ettari che arbitrariamente, per volontà politica, sono diventati suoi, non ha nei confronti degli "indigeni" né odio né ripulsa.

Ha un servitore arabo, aiuterà durante la siccità e l'apocalisse delle cavallette quegli algerini ridotti alla fame che timorosi e silenziosi arrivano alla sua fattoria. È il volto nobile della colonizzazione il suo, anch'esso perdente, ma con quel sentimento di umanità che in qualche modo lo riscatta dal sopruso che quel volto comunque accompagna.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica