Quando Gramsci contestava l'egemonia musicale del jazz

Le orchestre da ballo sfuggivano a controllo e vaglio degli intellettuali. Come la tv, le canzonette e i fumetti

Quando Gramsci contestava l'egemonia musicale del jazz

Il teorico dell'egemonia culturale, Antonio Gramsci, temeva l'egemonia musicale del jazz. Ci sono un paio di lettere in cui il pensatore mostra insofferenza per sassofoni, contrabbassi e batterie.

Gramsci, numero uno: «La Francia è l'inizio dell'Africa tenebrosa e il jazz-band è la prima molecola di una civiltà eurafricana» (lettera a Giuseppe Berti, 8 agosto 1927).

Gramsci, numero due, e scusate la lunghezza della imprescindibile citazione: «Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l'avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico» (lettera alla cognata Tatiana del 27 febbraio 1927).

Il pregiudizio razzista e il senso di superiorità sono evidenti ma non faremo il torto a Gramsci di rileggerlo con gli occhi di oggi. Un ottimo modo di approcciare la materia è il saggio di Roberto Franchini intitolato Gramsci e il jazz (Bibliotheka, pagg. 90, euro 12; dal 27 settembre in libreria). L'autore colloca le osservazioni di Gramsci nel corretto contesto storico e ne sottolinea l'apertura mentale, dalla economia alla cultura popolare. Pochi, nel 1927-1928, in Italia, si erano accorti delle novità provenienti da Parigi. Il moralismo, in stile cancel culture, impedirebbe di cogliere la finezza di alcune riflessioni. Gramsci passa dal jazz alla emancipazione dei «negri d'America» che potrebbe avere esiti diversi: acculturazione dell'Africa, in caso di esodo nei Paesi d'origine, o inasprimento delle «lotte di razza» negli Stati Uniti. In questo ampio quadro, a Gramsci importa poco stabilire la qualità del jazz. Al centro del suo interesse c'è il ruolo sociale di questa musica capace di colonizzare il mondo occidentale.

Gramsci sembra stigmatizzare la funzione omologatrice del jazz. D'altronde, la vittoria della musica da ballo interpreta la sete di divertimento dei giovani. L'edonismo, però, è una forza disgregatrice, allenta i vincoli con la comunità, pone l'accento sull'individualismo. Il jazz ha qualcosa di fisicamente meccanico. Le orchestre sono «fordiste», possono ripetere all'infinito il repertorio soffocando ogni deviazione dal già noto.

D'altronde, Gramsci aveva intuito che il jazz era un aspetto della potenza del Paese emergente al di là dell'oceano: gli Stati Uniti erano pronti a far valere la propria egemonia con ogni mezzo, inclusa la musica. Il modernismo si associa a uno stile di vita narcisista, frenetico, industriale. Il jazz era la colonna sonora ideale del nuovo mondo.

La diffidenza verso il jazz non era certo un'esclusiva di Gramsci. Le prime orchestre arrivarono in Italia intorno al 1922 e furono massacrate con termini apertamente razzisti. Sul Messaggero, nel 1922, si leggeva questa recensione di un'orchestra jazz: «Abbiamo una spiccata tendenza ad ammirare ogni novità che ci venga recata dall'estero, comprendendo nella parola estero anche le civilissime tribù dei cannibali». Non solo i giornalisti, anche i musicisti non furono conquistati. Disse Mascagni, in una intervista uscita nel 1926 sul Corriere della Sera: «Non posso concepire uno strumento peggiore del saxofon moderno; il suono è rivoltante». Nello stesso anno Sidney Bechet si esibì al Teatro Dal Verme di Milano ottenendo questa recensione dal Corriere: «I più indiavolati ritmi mentre l'orchestra negra scagliava nell'aria i suoni, gli stridori, i frastuoni più orripilanti con una insistenza barbara e violentemente comica».

Forse c'è un altro aspetto. Il teorico dell'egemonia temeva che la cultura pop sfuggisse al «controllo» e al «vaglio» dell'intellettuale di partito. Il jazz non aveva bisogno di alcun mediatore culturale. Inoltre c'è un aspetto paternalistico: il popolo va educato ma come si educa il popolo se è preda consenziente delle mode più «regressive»? Gramsci se la prendeva con il jazz. Il Partito comunista, ai tempi di Enrico Berlinguer, uomo dell'austerità, vedeva nella televisione a colori un incentivo ai consumi di lusso e l'Unità scriveva di «assurdi segnali colorati». Nel mezzo ci fu la scomunica apocalittica e moralistica delle canzonette e del rock.

Ma anche i fumetti, addirittura nel 1948, finirono nel mirino dei comunisti: e fu (ancora!) Berlinguer, all'epoca capo della Figc, a esprimere tutta la sua preoccupazione per la diffusione di questo genere «cattivo in sé» e volto a narcotizzare gli adolescenti con forti dosi di americanismo. In quanto ai film di Hollywood... ci siamo capiti. Il popolo va protetto dal divertimento, pericoloso corruttore che spinge ad abbracciare il perverso edonismo americano, nemico del socialismo.

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