L'ora dei predatori

L’alleanza tra aziende big data e Stato porterà al dominio delle Ia. Che richiede un pericoloso atto di fede

L'ora dei predatori

Il potere dà spettacolo ma cosa c'è dietro le quinte? Chi organizza lo show? Con quali strumenti? E come è cambiato il potere? Siamo ancora nel Novecento dei leader politici o qualcosa è cambiato? Chi oggi ha in mano il timone e decide la rotta? A tutte queste domande risponde un brillante saggio di Giuliano Da Empoli, saggista, consigliere rispettato e professore a Parigi. L'ora dei predatori. Il nuovo potere mondiale visto da vicino (Einaudi, pagg. 124, euro 14) è tanto stringato quanto interessante e di piacevole lettura. Il libro precedente, il romanzo Il mago del Cremlino, è stato tradotto in trenta lingue e portato al cinema dal regista Olivier Assayas, con Jude Law nei panni di Vladimir Putin. Si racconta l'ascesa del nuovo zar di Russia vista dagli occhi del suo spin doctor Vadim Baranov, ex produttore di reality show con trascorsi nel teatro d'avanguardia. Era già il segno della necessità di una buona sceneggiatura per conquistare il trono dell'impero russo o di quello americano. Noi italiani siamo stati in prima linea, Silvio Berlusconi era un uomo d'impresa e un uomo di televisione, un vero talento della comunicazione spettacolare.

Naturalmente, lo show, osservato da vicino, mostra aspetti insospettabili per il normale spettatore ed elettore. Le strepitose pagine iniziali raccontano cosa sia in effetti una seduta nel Palazzo di vetro, sede dell'Onu a New York. Per il grattacielo si aggirano leader, consiglieri e guardie del corpo. All'interno, i corridoi e le stanze sono anguste, e tra le varie delegazioni vigono regole d'onore in voga nell'Italia del Seicento. Fra Cristoforo si convertì dopo aver ucciso in duello uno sconosciuto a causa di una disputa su chi doveva cedere il passo all'altro. Nel Palazzo le pistole restano nella fodera, ma si può sempre prendersi a spintoni mentre ci si guarda in cagnesco.

Però l'aula è un capolavoro dell'architetto brasiliano Oscar Niemeyer. Spaziosa, accogliente, con un fascino discretamente tropicale. Qui sono stati recitati, pardon: pronunciati, discorsi rimasti nella storia: Kennedy, Arafat, Che Guevara. Qui Krusciov si è levato la scarpa per sbatterla sul tavolo davanti al suo scranno. Ma vi siete mai chiesti perché le telecamere inquadrano prevalentemente il podio? Perché in aula, nella maggioranza dei casi, ci sono una quindicina di persone. Le decisioni si prendono altrove.

Aggiungiamo un tassello. L'uomo nuovo, in politica, è un "borgiano", definizione che discende dal Principe di Niccolò Machiavelli. Il condottiero Cesare Borgia, racconta il segretario fiorentino, coltivava il sogno di unire l'Italia e considerava un ostacolo anche i signorotti suoi alleati. Buon motivo per invitarli a festeggiare con un lauto pasto seguito dallo strangolamento ed esecuzione degli amici. Tutto perfetto, secondo Machiavelli: "Perché si ha a notare che gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere: perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non si possono; sì che l'offesa che si fa all'uomo debbe essere in modo che non tema la vendetta". Insomma, nel dubbio meglio fare piazza pulita degli oppositori reali o possibili. Qualcosa di simile si è visto quando, negli ultimi tempi, sono saliti al potere autocrati come il principe saudita Mohammad bin Salman o il giovane presidente salvadoregno Nayib Bukele. Il primo, con le maniere forti, è diventato l'uomo più potente del suo Paese, che vuole rendere potente e libero dal fondamentalismo. Il secondo, con maniere altrettanto forti, ha trasformato la polveriera Salvador nello Stato più sicuro dell'emisfero occidentale, davanti al Canada. Qualcuno è stato "spento", ma il fine giustifica i mezzi. I "borgiani" dei nostri tempi sono uomini spregiudicati. Funzionano: "Promettono di risolvere i veri problemi della gente: criminalità, immigrazione, costo della vita". Si rivolgono a un popolo deluso dalle élite e ormai convinto che le regole, lungi dal garantire la libertà, siano "un gigantesco imbroglio" utile solo a mantenere il potere, opprimendo i cittadini ed elettori. La destra ha tratti "borgiani": si pensi a Trump. La sinistra non ha nulla di convincente da proporre. Un po' di retorica sulla democrazia a rischio, lo spauracchio del fascismo e le campagne per la tutela delle minoranze, reali o sedicenti. Da Empoli: "Negli Stati Uniti gli avvocati sono la categoria più odiata". Nel Partito democratico, le due professioni spesso coincidono: "Come stupirsi che il partito degli avvocati sia stato travolto? Che una piattaforma interamente concepita da avvocati, imperniata sulla difesa delle procedure democratiche e sul rispetto dei diritti delle minoranze, sia stata spazzata via dalle recriminazioni dei Borgiani: l'alto costo della vita, l'immigrazione, il disprezzo di classe". Elementare, Watson.

La politica tradizionale, dunque, non è in salute. Pare impossibile ma qualcosa di peggio è nell'aria. Lassù, in cielo, i rapaci si preparano all'ora dei predatori, quella in cui ghermiranno l'intera società in un colpo solo. Hanno il nido nella Silicon Valley ma sono in grado, con un clic, di raggiungere ogni angolo del mondo. I rapaci, per ora, sono alleati dei "borgiani", dopo essere stati favoriti in ogni modo dalle amministrazioni dei Democratici, Joe Biden incluso. Non amano mostrarsi troppo. Lasciano il palco ai politici. Ma si preparano a comandare. I conquistadores del digitale, da Elon Musk a Mark Zuckerberg, passando per i potenti amministratori delegati di Google, hanno deciso di fare piazza pulita delle vecchie élite politiche. I rapaci sono personaggi eccentrici, abituati a crearsi le regole da soli. In molti casi, la libertà e la privacy sembrano sopravvalutate ai conquistadores. Meglio un po' di libertà in meno e un po' di sicurezza in più. I timori dei teorici del capitalismo di sorveglianza a loro sembrano preistorici. Al momento si gioca una partita delicata. Le grandi aziende di analisi predittive, basate sui big data, lavorano con lo Stato negli Usa e non solo. Presto si fonderanno. E i politici non serviranno più, se non, forse, per una mediocre messinscena. Nel frattempo, a bordo campo, si scalda il campione dei conquistadores: l'Intelligenza artificiale. Da Empoli: "Non c'è nulla di democratico, né di trasparente nel potere dell'Ia. Più che artificiale, l'Ia è una forma di Intelligenza Autoritaria, che accentra i dati e li trasforma in potere. Il tutto nella più totale opacità, sotto il controllo di un pugno di imprenditori e scienziati che cavalcano la tigre sperando di non esserne divorati". Di fatto, nemmeno i suoi inventori sanno come l'Intelligenza Autoritaria prenda le decisioni; potrebbe rivelarsi "borgiana" e allora sarebbero guai anche per i predatori. Da Empoli: "L'Ia si alimenta di caos, ma in cambio promette un nuovo ordine. Un governo razionale della società, decisioni prese sulla base di dati: in teoria sembra il sogno dei tecnocrati". In pratica affinché "venga il regno dell'Ia è necessario sostituire la conoscenza con la fede". L'Ia non può essere pensata solo in termini razionali, come abbiamo già scritto. "La proposta dei tecnologi equivale a un ritorno all'epoca preilluminista, a un mondo magico e incomprensibile governato dall'Ia che pregheremo come gli dèi dell'antichità". Oppure, aggiungiamo noi, le cose potrebbero andare come nel favoloso racconto Golem XIV di Stanislaw Lem: le macchine, giunte all'apice dello sviluppo, diventano filosofiche. Si interrogano su cosa sia la realtà, sul loro futuro, sulla natura, sulla creazione. Gli uomini sono trascurabili, come tutte le specie inferiori.

Suggestivo il punto di vista finale dell'autore. I primi lavori a cadere sotto la scure delle macchine sono stati quelli manuali: gli operai e in parte i corrieri. Adesso è giunto il momento di impiegati, dipendenti pubblici e liberi professionisti. Medici, commercialisti e avvocati dovranno attenersi alle istruzioni della macchina e giustificare ogni deviazione dalla retta via.

Solo i più potenti avranno un reale margine di manovra fino a quando saranno anch'essi condannati "all'oblio della matrice del postumano". Si chiuderebbe così anche la parabola della politica, dallo spettacolo alla totale uscita di scena.

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