"La nostra grande letteratura? L'hanno fatta i saggisti"

Il critico Alfonso Berardinelli racconta l'antologia che ha realizzato assieme a Matteo Marchesini per raccogliere il meglio del '900

"La nostra grande letteratura? L'hanno fatta i saggisti"

Se c'è un libro dell'anno, almeno per l'editoria italiana, eccolo. Un libro così originale che mai prima è stato pensato qualcosa del genere. Così ambizioso da giustificare l'impresa quale che sia il ritorno di vendite. E prezioso perché contiene alcune delle pagine fra le più memorabili della letteratura italiana. S'intitola Saggisti italiani del Novecento (Quodlibet), è un'antologia di 1450 pagine tratte delle opere di 106 autori, diversissimi fra loro ma tutti maestri di scrittura, è curata da Alfonso Berardinelli e Matteo Marchesini (e la distanza generazionale tra i due, Berardinelli è nato nel 1943, Marchesini nel 1979, è un valore aggiunto) e cerca di dimostrare come il genere che nel Novecento ha meglio risposto al bisogno di conoscenza del presente non è stata la narrativa né le poesia, ma la saggistica.

Alfonso Berardinelli, un'antologia del genere è un unicum. Perché nessuno ha mai tentato prima una cosa simile?

"Me lo sono chiesto anch'io.... La ragione sta nel fatto che a lungo è prevalsa una forte diffidenza nei confronti dei generi misti, non ben definibili dalla teoria, come invece accade per narrativa e poesia. Molti anni fa tentati in un libro una teorizzazione del saggio, che è appunto un genere ibrido, qualcosa che sta a metà fra intelligenza e stile, tra autobiografia e pensiero. Il saggio è un pensiero vissuto, è una prosa di riflessione. E i puristi e gli accademici, che invece pensano alla assoluta creatività della letteratura, non hanno mai contemplato davvero il saggio come genere a sé, capace di interpretare il mondo".

Qual è la forza della saggista rispetto alla poesia e alla narrativa nel '900?

"Il vantaggio è che il saggio è un genere che riguarda la realtà: non può vendere invenzione, tutto ciò che dice deve essere vero. Ciò che fa la letterarietà del saggio non è l'invenzione ma lo stile".

Nella sua prefazione, "Il Novecento e la forma del saggio", spiega che in effetti i rapporti tra saggio e 900 non sono mai stati buoni.

"È così. Nel '700 prevale la prosa di pensiero: basti dire che l'opera fondamentale della cultura letteraria del secolo è l'Enciclopedia francese. L'800 invece è stato il secolo della poesia romantica e del romanzo, lasciando la saggista in secondo piano. Nel '900 invece è tornata in auge la saggistica, senza la quale anche grandissimi poeti come T.S. Eliot non sarebbero stato così importanti. Senza le teorizzazioni, senza la critica che ha spiegato grandi autori spesso enigmatici, come Kafka o Joyce, il loro valore sarebbe stata molto minore. E poi nel '900 si è affermato il pregiudizio secondo il quale le arti sono assoluta creatività. Un grave errore. La saggistica vive anche di osservazioni che riguardano la società, la cultura, i costumi... E il fatto che il saggio non fosse un genere letterario immediatamente definibile, a cui non si riusciva a mettere una etichetta, è stato la sua sfortuna".

E oggi? Lei sostiene che la saggistica da un po' di tempo a questa parte sia più vitale della narrativa, di cui si pubblicano troppi titoli e che ormai è post o para letteratura, e anche della poesia, ormai irrilevante e che raggiunge pochi lettori.

"La mia valorizzazione del genere saggistico dipende dal fatto che una volta il poeta e il narratore erano intelligenti, cioè intellettuali Calvino o Pasolini, Parise o La Capria... - mentre ora non lo sono più. Si è verificato un pesante impoverimento di pensiero nella produzione narrativa e poetica. Oggi si pretende di scrivere poesia e letteratura senza averne lette abbastanza. E gli editori chiamano romanzi dei raccontini annacquati per arrivare a 200 pagine. E infatti da anni, parallelamente al crollo culturale in letteratura, mancano anche una vera critica cinematografica e una vera critica d'arte".

Lei e Matteo Marchesini come avete proceduto nella scelta dei nomi e dei brani?

"Un vero criterio non c'è, se non il valore dei brani. Che sono molto vari per interesse e per stile. Il saggista non crede di essere un genio, come il poeta o il narratore, ma pensa di essere utile. Quindi si occupa di qualsiasi cosa abbia attinenza con la vita sociale, le mode, la comunicazione, la politica... Devo dire che io sarei stato più selettivo, avrei isolato solo l'esemplare per qualità e leggibilità. Ma ha avuto ragione Marchesini ad ampliare la scelta. Se fossimo stati più selettivi poi tutti avrebbero parlato solo degli esclusi e non di chi c'è".

Moltissimi degli autori scelti sono stati prima di tutto o comunque sono stati anche giornalisti. Prezzolini, Cecchi, Longanesi, Soldati, Piovene, Arbasino... Non è un caso ovviamente.

"Beh, è buona cosa che molti grandi scrittori abbiano praticato il giornalismo, altrimenti sarebbero precipitati nell'accademia. La prosa dello studioso è più specialistica, meno accessibile; mentre il giornalismo permette di praticare felicemente la prosa saggistica tendendo a un alto livello di comunicabilità. Praticare il giornalismo è una forma di autoeducazione per gli scrittori: doversi rivolgere a un pubblico vasto e non solo alle élite affina la scrittura. Diciamo che il grande giornalismo può essere anche filosofia scritta meglio per un pubblico più ampio".

È vero che non si dovrebbero citare gli esclusi. Ma devo farlo. Manca Montanelli.

"In effetti scriveva benissimo. Una sorta di figlio o nipote di Prezzolini... Sì, poteva starci nell'antologia. Montanelli però era così perfettamente giornalista da non far pensare al fatto che fosse anche qualcosa di più. Il contrario di Eugenio Scalfari. Lui non ha capito che facendo il giornalista si può essere perfetti, e alla fine gli sono venute sciocche ambizioni da filosofo e narratore. Voleva passare alla Storia e ha pensato che essere ottimi giornalisti non bastasse e ha voluto fare altro. Così Montanelli ci è passato, alla Storia. Lui no".

Perché il saggio è il genere che meglio affronta le trasformazioni e i problemi del presente?

"Proprio perché nell'anima del saggista c'è anche il giornalista e il filosofo, i quali devono fare i conti con la realtà. E lo fanno in modi molto vari e molti efficaci perché dentro la saggistica si trova di tutto: satira, invettiva, riflessione, autobiografismo...".

Gli autori antologizzati sono 106, da D'Annunzio e Croce, i "due modelli", fino a Umberto Fiori. In mezzo, Giacomo Debenedetti, Sciascia, Bianciardi, Pontiggia... Quali sono i suoi saggisti più amati?

"Difficile rispondere... mi piacciono tutti. Diciamo che per la critica letteraria i più grandi e i più attuali sono Debenedetti e Mario Praz: diversissimi ma che hanno retto di più il passare del tempo. Poi ci sono i maestri del ritratto, un genere saggistico meraviglioso: penso a Norberto Bobbio che ritrae Leone Ginzburg o Patrizia Cavalli che ritrae Frida Kahlo. Per la satira ai vertici metto Piergiorgio Bellocchio o il Come ridere di Lacan? di Garboli. Poi c'è Gadda, un meraviglioso saggista anche quando fa il narratore. E infine una vera sorpresa: Tomasi di Lampedusa, un critico straordinario".

Matteo Marchesini dice che da qualche anno in qua immaginare la realtà è diventato molto più difficile che immaginare l'immaginario.

"Il saggista è un po' psicologo, un po' polemista, un po' osservatore dei fatti di costume...

Si può permette un enciclopedismo dell'attualità che spinge la scrittura molto in alto. E ha ragione Marchesini: la nostra immaginazione non ce la fa a stare dietro a realtà impreviste che ci stanno capitando addosso: Covid, guerre, crisi climatiche... Serve più un saggista che un narratore o un poeta".

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