Scagliandosi contro le norme europee che hanno messo al tappeto l'industria automobilistica, John Elkann (nella foto) ha in realtà fatto emergere la grande responsabilità dell'industria, che è culturale prima che di marketing. Tra i costruttori e in tutta la filiera metalmeccanica c'è una timidezza diffusa a prendere le distanze dalle politiche ambientaliste di matrice ideologica, che perseguono un'illusoria salvezza del pianeta sacrificando ad essa il benessere degli europei. In questo senso, è come se Elkann avesse parlato per tutti.
Da un lato denuncia il problema, dicendo che bisogna "risollevare l'industria automobilistica europea da quello che rischia di essere un declino irreversibile". Verissimo, salvo che il rischio non c'è più e ormai il declino è una realtà fattuale. Dall'altro però si affretta a completare garantendo di voler "continuare a perseguire gli obiettivi ambientali di decarbonizzazione della Commissione". Eppure egli sa bene che sono proprio quegli obiettivi il net zero del Green Deal ad aver segato il ramo su cui lui e milioni di lavoratori sono seduti. Afferma che "esiste un altro modo per ridurre le emissioni nel nostro Continente" pur sapendo che non sia necessario, poiché lo stiamo già facendo dal 1980 e infatti oggi pesiamo il 7% del totale e le nostre auto lo 0,9%, mentre la Cina e gli altri Paesi emergenti pesano il 75% e continuano ad aumentarle. Lo sa grazie a Marchionne che già dieci anni fa mostrava, dati alla mano, quanto le emissioni delle auto non fossero responsabili dell'aumento della CO2.
Quando poi boccia le regole comunitarie ("sono sbagliate, ovvero non sono adeguate allo scopo per cui sono state scritte") sembra ignorare che invece è il contrario. Infatti, è vero che "i consumatori non sono pronti" e che "la maggior parte dei nostri clienti ha inviato un messaggio chiaro: non sono disposti a farsi dire quale auto acquistare. Vogliono riavere la loro libertà di scegliere l'auto più conveniente per loro". Ma questo la Commissione lo sapeva già cinque anni fa e proprio per questo ha deciso di imporre le elettriche vietando la vendita delle altre a partire dal 2035. Le norme sono perfettamente adeguate allo scopo. Insomma, se qualcosa non va è lo scopo in sé, non la norma. Allora, perché non dirlo? Invece, mentre afferma che "insieme al governo italiano abbiamo insistito affinché quelle regole fossero modificate rapidamente", subito avverte il bisogno di chiarire che l'intento "non è di frenare l'elettrificazione" e che anzi "la nostra fiducia in un futuro elettrico rimane immutata".
Questa è sudditanza culturale. Giustificabile nei politici che inseguono il voto dei cittadini e temono di alienarselo mettendosi di traverso all'ideologia ambientalista e purtroppo hanno ragione poiché per gli europei, di sinistra ma anche di destra, conta più un grammo di CO2 che uno stabilimento. È meno comprensibile nell'industria, che si gioca la sua stessa sopravvivenza, vieppiù alla luce delle ammissioni fatte da Tavares e De Meo dopo aver lasciato l'automotive.
Questo timore di confutare la deriva
ambientalista, o almeno di riportarla nei suoi binari reali, è la madre del disastro industriale, orchestrato sì dalla Commissione a trazione Timmermans-Ribera, che però l'industria si è autoinflitto scegliendo di non opporsi.