L'errore della sinistra che frena il cambiamento

Il vero discrimine non è più tra destra e sinistra, ma tra chi guarda al futuro con lucidità e chi resta imprigionato nella nostalgia ideologica

L'errore della sinistra che frena il cambiamento
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C'è un filo rosso che percorre, quasi sotterraneo ma ostinatamente presente, il dibattito politico contemporaneo: è la paura. Non quella legata alle cronache del crimine, ma un sentimento più profondo, quasi antropologico, che affiora nei sondaggi con una parola che si impone su tutte: sicurezza. Sicurezza come bisogno di certezze, come ansia di fronte a un mondo che cambia con una velocità mai sperimentata prima, sospinto da rivoluzioni tecnologiche, sociali ed economiche che mettono in discussione identità, professioni, equilibri consolidati.

È una condizione psicologica diffusa, che attraversa fasce sociali ampie e non riconducibili a stereotipi. Ed è proprio in questa crescente inquietudine che la politica dovrebbe trovare la propria missione: interpretare il presente, governare il cambiamento, costruire strumenti e politiche capaci di allargare la platea dei beneficiari del progresso. In altri termini, trasformare la paura in opportunità.

Accade invece l'esatto opposto. Una parte significativa della sinistra quella che ama definirsi progressista ma che, nei fatti, appare oggi prigioniera di un riflesso passatista sceglie la scorciatoia della radicalizzazione. Non si sforza di comprendere il cambiamento: lo teme. Non prova a includere, ma a scomunicare. Non allarga la base sociale del progresso: individua il nemico e lo addita alla pubblica esecrazione.

Il copione è sempre lo stesso, ripetuto con accenti diversi da New York a Parigi, passando per le piazze di Landini e per i palchi di una parte della sinistra italiana. La parola d'ordine non è più aiutare chi sta indietro, ma abbattere chi sta avanti. Non l'emancipazione dei più deboli, ma la penalizzazione dei più forti. Come se la ricchezza non fosse una risorsa da produrre e distribuire, ma un peccato da espiare.

Questo approccio si traduce in una ricetta economica che richiama alla memoria i rigurgiti ideologici del Novecento: patrimoniali punitive, trasporti gratuiti per tutti senza analisi di sostenibilità, persino fantasiose ri-nazionalizzazioni del commercio alimentare attraverso "spacci pubblici" che evocano, più che un'idea di modernità, le code dell'Unione Sovietica. È il ritorno di un immaginario politico che pensavamo archiviato con il Muro di Berlino, dove il benessere collettivo non veniva costruito ampliando opportunità ma individuando "nemici del popolo" da accusare di egoismo e arrivismo.

Il problema non è soltanto l'ideologia in sé che pure la storia ha già ampiamente smentito ma il fatto che essa venga proposta come risposta ai timori generati da un futuro complesso. È una strategia tanto semplice quanto fuorviante: di fronte a un cambiamento che spiazza, si promette un ritorno a un passato immobile e rassicurante; di fronte alla necessità di produrre più ricchezza, si prospetta una ridistribuzione punitiva di quella esistente; di fronte a un mondo che corre, si invita a rallentare anziché attrezzarsi a correre meglio.

La conseguenza è un corto circuito politico e culturale. La ricerca scientifica, l'innovazione digitale, le nuove filiere economiche avanzano a una velocità che richiederebbe visione, investimenti, coraggio regolatorio. La politica che dovrebbe accompagnare queste transizioni e indirizzarne gli impatti verso il benessere collettivo arretra invece verso schemi del passato, verso una narrazione consolatoria in cui il cambiamento è pericolo e l'arretramento è protezione.

È un errore che rischia di costare caro, soprattutto a quelle stesse fasce sociali che la retorica radicale afferma di voler difendere. Perché la storia insegna che i modelli economici fondati sull'esproprio e sulla penalizzazione della produzione non generano uguaglianza, ma stagnazione: più debito, meno produttività, inflazione, perdita di competitività. E soprattutto meno opportunità proprio per chi ha più bisogno che il progresso funzioni.

Il vero discrimine non è più tra destra e sinistra, ma tra chi guarda al futuro con lucidità e chi resta imprigionato nella nostalgia ideologica. Tra chi crede che le rivoluzioni tecnologiche possano diventare leve di benessere condiviso e chi preferisce raccontarle come minacce da arginare a colpi di proclami. Tra chi vuole costruire nuovi "ascensori sociali" e chi li scambia per strumenti elitari da sabotare.

La radicalizzazione non offre soluzioni: offre bersagli. E i nuovi Robin Hood evocati nelle piazze non rubano ai ricchi per dare ai poveri: sottraggono al futuro per distribuire illusioni nel presente.

In un mondo che

cambia, la vera sicurezza non nasce dall'abbattere chi corre più veloce, ma dal mettere tutti in condizione di correre. E la politica che teme il progresso finirà sempre per tradire proprio coloro che dice di voler proteggere.

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