Quirinale 2013

Prodi, il prof democristiano che non disdegnava il compromesso storico

Prof universitario, manager di aziende pubbliche decotte. Ministro nel 1978 con Andreotti. La guida dell'Iri, la vendita discussa dell'Alfa Romeo e la tentata "svendita" della Sme. Fino all'Ulivo e all'Unione

Prodi, il prof democristiano che non disdegnava il compromesso storico

A trentanove anni era già ministro (dell'Industria), con Andreotti alla guida del governo monocolore Dc. Il professor Romano Prodi era subentrato il 25 novembre 1978 a Carlo Donat-Cattin, leader della corrente di sinistra interna Forze Nuove, costretto a lasciare perché il figlio Marco era un militante dell'associazione terroristica Prima Linea. Cattolico vicino alla sinistra Dc (ma ebbe buoni rapporti anche con Andreotti), negli anni Settanta - così come altri autorevoli esponenti Dc della corrente morotea (Moro in primis), non disdegnava l'idea del compromesso storico (l'accordo Dc-Pci).

Laureatosi in Giurisprudenza all'Università Cattolica di Milano, nel 1961, fin da subito Prodi si dedicò agli studi economici, discutendo una tesi sul protezionismo nello sviluppo dell'industria italiana e approfondendo poi la materia in diversi atenei, tra cui la London School of Economics. Due anni dopo, nel 1963, iniziò la sua lunga carriera accademica, come assistente, sotto l'ala protettrice di Beniamino Andreatta, alla cattedra di Economia politica di Scienze politiche dell'Università di Bologna. Nel 1973, a soli 34 anni, ottiene la cattedra all'Università di Trento (Economia e politica industriale), il cui rettore era il fratello Paolo. Terrà la cattedra, come professore ordinario all'Università di Bologna, fino al 1999.

Prodi si affaccia alla politica nel 1963, entrando in Consiglio comunale, a Bologna, nelle liste della Democrazia Cristiana. Ma le beghe cittadine gli vanno strette e l'impegno mal si concilia con le sue aspirazioni accademiche. Preferisce queste di gran lunga, accompagnandole agli incarichi da manager pubblico che da lì a poco gli verranno offerti: negli anni Settanta va a guidare due società in grave crisi, la Maserati e la Callegari e Ghigi (nautica). A lui, anche in futuro, verrà affidato il compito di risanare o vendere le aziende pubbliche decotte.

Il grande salto Prodi lo fa nel 1982, quando il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, su indicazione di De Mita, lo nomina a capo dell'Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale), l'ente pubblico creato da Mussolini nel 1933 per evitare il fallimento delle principali banche italiane, poi trasformatosi, nel dopoguerra, nello strumento utilizzato dallo Stato per foraggiare l'industria e sostenere lo sviluppo economico del Paese. Chiamato per ristrutturare il “carrozzone”, si prodigò per la cessione di 29 aziende del gruppo, tra cui l'Alfa Romeo, che nel 1986 finì alla Fiat. L'americana Ford avrebbe sborsato una cifra maggiore per acquistarla, ma prevalse il nazionalismo dei partiti di maggioranza, che spinsero per il Lingotto, ricevendo il plauso di quasi tutta la stampa dell'epoca.

Molto controversa è la tentata vendita della Sme (il più grande gruppo alimentare italiano, con marchi come Cirio, Motta, Supermercati Gs) al gruppo Cir di De Benedetti. L'operazione è osteggiata dal governo Craxi, che si prodiga per convincere un gruppo di imprenditori a organizzare una cordata per avanzare un'offerta alternativa. L'offerta alla fine non arriva ma la vendita (o svendita) della Sme salta. L'accusa mossa a Prodi, che lui ha sempre respinto con sdegno, è quella di aver fissato un prezzo di vendita troppo basso. In pratica di aver voluto svendere un vero e proprio gioiello dello Stato per poche lire.

Dopo la caduta del governo Amato, nel 1993, è in lizza per l'incarico di capo del governo. Ma la spunta Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d'Italia, che va a guidare un governo tecnico. Prodi è richiamato alla guida dell'Iri, con l'incarico di procedere a passo spedito a una lunga serie di privatizzazioni. Si dimette nel 1994, quando a Palazzo Chigi da poche settimane si è insediato Silvio Berlusconi.

Il Professore torna all'antico amore, la politica, dopo l'impegno con l'Iri. L'annuncio lo dà nell'agosto 1994: “Adesso ho mente e animo liberi. Un impegno in politica diventa un dovere, vista la situazione”. Pochi mesi prima aveva rifiutato di candidarsi per il Ppi alle elezioni europee. Passano pochi mesi e, nel febbraio 1995, Prodi lancia il suo movimento politico, L'Ulivo, che nel giro di un anno si trasforma in coalizione di centrosinistra, con l'accordo tra Pds, Ppi, Verdi. Prodi vince le politiche nel 1996 e diventa presidente del Consiglio. Ma il suo governo nasce col “peccato originale”. Si regge, infatti, sui voti dei parlamentari di Rifondazione comunista, eletti grazie a patti di desistenza (mancata candidatura di proprie liste nella maggior parte dei collegi uninominali, in cambio dell'elezione assicurata di un certo numero di seggi). Nel 1998 Rifondazione, in forte disaccordo sulle linee guida della nuova legge finanziaria, gli fa mancare il proprio appoggio e l'esecutivo cade. Si apre la strada al governo D'Alema, che nasce grazie all'appoggio di alcuni parlamentari di centrodestra confluiti, sotto la supervisione di Cossiga (che diede vita all'Udr), nella maggioranza. Prodi però non rimane a bocca asciutta. Viene “ricompensato” nel marzo 1999, con la nomina a Presidente della Commissione europea, carica che ricopre fino al 2004.

Tornato a occuparsi della politica italiana, si impegna a capofitto nella coalizione di centrosinistra denominata “L'Unione”, che fa il suo debutto nelle elezioni regionali del 2005. L'Unione conquista ben dodici regioni delle quattordici in lizza. Pochi mesi dopo Prodi riceve l'investitura di leader della sinistra vincendo le primarie della coalizione (16 ottobre 2005). Il 9 aprile 2006 vince di nuovo le elezioni, ma con uno scarto minimo sul centrodestra, inferiore a 25mila voti. Nonostante questo non vuole saperne di aprire alle “larghe intese” suggerite da Berlusconi, sull'esempio tedesco, e fa finta di nulla. Ma la strada è stretta: si ritrova a governare il Paese con estrema fatica, appoggiandosi al voto decisivo dei senatori a vita a palazzo Madama. Il Prodi II è il governo più numeroso nella storia della Repubblica (102 tra ministri, viceministri e sottosegretari). Resta in carica meno di due anni. Fatale è l'uscita dalla maggioranza di Clemente Mastella, ministro della Giustizia e leader dell'Udeur, e il voto contrario di alcuni senatori che inizialmente lo avevano appoggiato (Dini, Fisichella e Turigliatto).

La seconda clamorosa bocciatura di Prodi manda in profonda crisi il Professore, che da allora si ritira a vita privata, andando a fare conferenze e tenendo corsi in giro per il mondo, soprattutto in Cina. Torna sulla scena pubblica con un importante incarico che gli affida Ban Ki-moon nel 2008: va a presiedere un gruppo di lavoro per le missioni di peacekeeping in Africa. E, lentamente, si riaffaccia, sia pure con estrema prudenza e timidezza, alla politica italiana. Il ritorno in grande stile è nell'ultima campagna elettorale, quando sale sul palco, in Piazza Duomo a Milano, a fianco di Bersani. Forse guardando già con malcelato interesse alla corsa per il Quirinale.

L'Euro e i conti non in regola dell'Italia

Prodi, com'è noto, è stato uno dei più grandi sostenitori dell'entrata dell'Italia nell'euro. Al punto che spesso lo rivendica, a torto o a ragione, come uno dei suoi più grandi successi. Eppure, a ben vedere, il nostro Paese non era pronto a entrare nella moneta unica (e a quelle condizioni). Fu una scelta politica o, per meglio dire, un azzardo (o forzatura che dir si voglia). L'ha svelato poco tempo fa allo Spiegel, uno dei protagonisti dell'epoca, l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl. Il leader tedesca era a conoscenza del fatto che i conti pubblici del Belpaese erano stati messi in ordine grazie ad alcuni trucchetti contabili, necessari a farci fare bella figura. Ma motivi di prestigio internazionale (l'Italia era un paese fondatore dell'Europa) e ragioni di convenienza politica interna lo spinsero a ignorare i moniti degli esperti finanziari e i dubbi sollevati dal governo olandese. La moneta unica nacque, dunque, senza tenere conto dei fondamentali economici. Fu una scelta prettamente politica. All'inizio ne abbiamo tratti dei vantaggi. Oggi, però, coi i vincoli sempre più stretti e la crisi economica che non vuole sentirne di passare, ne paghiamo le conseguenze.

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