Reza porta alla sbarra "La vita normale" per giudicarla con la letteratura

La drammaturga francese apre oggi la kermesse con la lezione "Vediamo un po’". Il suo nuovo libro è un viaggio nei tribunali

Reza porta alla sbarra "La vita normale" per giudicarla con la letteratura

Che cos'è «la vita normale»? Almeno una volta ce lo siamo chiesto o l'abbiamo invocata tutti (magari imprecando), ed è ciò di cui ci parla Yasmina Reza nel suo ultimo libro, che si intitola proprio così: La vita normale (come sempre Adelphi, pagg. 194, euro 19). La scrittrice e drammaturga francese lo presenta oggi al Salone del Libro di Torino, che inaugura con la Lezione «Vediamo un po'» (ore 14, Lingotto Pad. Oval, Sala Oro). Nella versione originale, il titolo del libro è ancora più (apparentemente) terra terra: Récits de certains faits, ovvero «racconti di certi fatti» ma, ancora più semplicemente, si potrebbe tradurre «resoconti». Insomma, una serie di dettagli che ci preannunciano come di prosaico, in queste cronache di vita normale, ci sia ben poco.

Già indirizzare lo sguardo verso la «normalità», per uno scrittore è una dichiarazione di intenti. È porsi dal punto di vista dell'osservazione più che da quello dell'immaginazione, ma quell'osservazione consapevole (per secoli di letteratura, filosofia, scienza, investigazioni e perfino giornalismo...) del fatto che l'osservatore faccia sempre parte dell'evento stesso. E poi la vita normale di cui ci racconta Reza è quella delle persone quando si trovano in tribunale, come testimoni, come giudici e, soprattutto, come accusati, ovvero in una delle situazioni meno normali possibili: qui, la banalità della vita viene per così dire fatta esplodere, e il racconto di una normalità diventa la memoria di una eccezionalità, di esistenze al loro limite, di interiorità eviscerate, di passati lasciati a suppurare, di futuri mai coniugati, di vuoti la cui solidità ci spiazza, e ci tormenta. Fra una storia e l'altra, Reza ci fa anche entrare nella propria, di normalità, a Venezia, a Parigi, al telefono, in brevi pagine bellissime.

La vediamo, Yasmina Reza, girare su e giù per le corti, fra Nizza, Parigi, Digione, la Val-d'Oise, Calais, aristocratica come solo una scrittrice francese può essere, con i suoi grandi occhi scuri che rilevano ogni dettaglio. Per anni, prende nota delle storie di persone che non diventeranno mai personaggi: Olivier Cappelaere, che avvelena vecchie signore gentili e danarose; Edith, che ammazza il marito violento a colpi di carabina e ne nasconde il corpo in un sacco della spazzatura; Dalila, che accoltella un ragazzo nero in metropolitana per razzismo, lei che è nordafricana; Fabienne, che ha abbandonato la figlia piccola su una spiaggia dell'oceano sperando che le onde la portassero via. Perfino Nicolas Sarkozy, l'ex presidente, che nel 2006, quando era ministro dell'Interno, Reza aveva seguito durante la campagna elettorale (il risultato, fra diario e ritratto, era stato L'alba, la sera o la notte): lo ritrova alla Corte penale di Parigi nel dicembre 2022, insieme a Gilbert Azibert e Thierry Herzog, accusati di «corruzione e concussione, traffico di influenze» eccetera. «Se fosse stata applicata la legge, ovvero il rispetto della confidenzialità dei colloqui fra avvocato e cliente, il caso non sussisterebbe neppure» ci avverte Reza. «Ma la legge è venuta a patti con la legge». Non sarà nemmeno stata la prima volta.

Reza ci racconta di Cyril, che ha ucciso la suocera con trenta coltellate, pugnalato il cognato, lasciato che la colpa ricadesse su quest'ultimo perché schizofrenico. Tutti i parenti di Cyril (tranne la moglie) credono fermamente alla sua innocenza. Con loro consuma un ultimo pranzo: «Sono sorridenti e tranquilli come se niente fosse, come se fosse un giorno normale della vita normale». Lo adorano: «Un attaccamento che lascia intravedere un altro Cyril e finisce per rischiararlo di una luce tenue, quasi commovente. Una luce ahimè inefficace in una corte d'assise e che lo costringe a un'eterna negazione».

Molte cose sono inefficaci in una corte d'assise, molte altre non hanno diritto neppure di ascolto. Brigitte è stata stuprata ma poi, via messaggio, chiedeva amore al suo violentatore: «non ha denunciato a causa dei fatti ma a causa delle parole non dette, a causa dell'assenza di rimorsi, di spiegazione, di tenerezza. Quale tribunale si occupa di cose simili?». Eppure. C'è la presidente di giuria che insiste a smorzare i toni di una strage famigliare, perché è «la rispettabile tendenza del nostro tempo», che deve spiegare tutto, anche il male. Reza prende nota. «Crede al bene e al male. È solo una giudice. Non ha imparato a superare le categorie».

Un giorno vede il signor Louette, un uomo che «c'è ma non c'è», che accusano di omesso soccorso, difeso così: «Non è possibile applicare il codice penale con tutta la sua freddezza a un individuo come il signor Louette». E a chi, invece, è possibile applicarlo? Quanti di noi si sentono dei signori Louette? Essere un signor Louette è un alibi, una colpa o una punizione? Queste sono solo alcune delle riflessioni a cui ci lasciano i resoconti della vita normale di Yasmina Reza.

Fino a che sul banco degli imputati troviamo perfino il destino, che si è accanito su due marinai morti annegati: «A essere sotto processo è la vita stessa. La sua imperfezione». Una imperfezione così normale e, per questo, così terribile. Una imperfezione in cui anche noi siamo risucchiati, come quei due marinai nel profondo del mare.

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