Cultura e Spettacoli

La Roma di piombo raccontata dai carabinieri che vinsero le Br

La storia della Sezione Speciale in cinque puntate. Per la prima volta, oltre a terroristi e studiosi, parlano le forze dell'ordine

La Roma di piombo raccontata dai carabinieri che vinsero le Br

Di recente, Giorgia Meloni ha ricevuto minacce di morte da parte delle Brigate Rosse. I terroristi sono stati sconfitti ma ogni tanto rialzano il capo come accadde con le Nuove Brigate Rosse che uccisero Massimo D'Antona (1999) e Marco Biagi (2002) prima di essere sgominate dalle forze dell'ordine. Non è il caso di sottovalutare i messaggi criminali rivolti alla leader di Fratelli d'Italia. Le organizzazioni estremistiche traggono linfa dal malcontento sociale e dalla convinzione (insensata) di proseguire la Resistenza contro il fascismo. Proprio il fascismo evocato, a sproposito e con l'unico fine di allarmare, dalla propaganda elettorale più ignorante e dagli intellettuali meno seri ma più seriosi. A questo, dobbiamo aggiungere che l'autunno sarà gelido in casa, a causa della carenza di gas, e infuocato in strada, a causa della povertà. Brutti segnali che riportano alla memoria la notte della Repubblica dalla quale, tutto sommato, ci siamo svegliati da poco.

La storia delle Brigate Rosse è stata raccontata spesso (e anche bene) dal punto di vista dei carnefici, dei parenti delle vittime e degli storici. A queste voci possiamo aggiungere ora quelle delle forze dell'ordine impegnate sul campo a contrastare le cellule di terroristi. Per questo motivo, spicca la docu-serie Roma di piombo. Diario di una lotta in onda su Sky Documentaries, realizzata da Ballandi, ideata da Paolo Colangeli, scritta da Michele Cassiani con Egilde Verì e la regia di Francesco Di Giorgio. Sono cinque puntate, tre già andate in onda, comunque disponibili in streaming su Now e on demand.

Sotto la guida del generale Dalla Chiesa, un gruppo di carabinieri forma la Sezione Speciale Anticrimine di Roma, che ha il compito di combattere le organizzazioni sovversive ed eversive, e in particolare le Brigate Rosse. Gli uomini della Sezione neppure sembrano militari: si chiamano con nomi di battaglia, vestono casual, hanno la barba e i capelli lunghi. Insomma, non danno nell'occhio nei luoghi di ritrovo (università, piazzali delle fabbriche, locali) dove plausibilmente i brigatisti trovano le nuove reclute. All'inizio non c'è nulla nonostante i terroristi abbiano già rapito e ucciso Aldo Moro. Non c'è un archivio. Non è possibile incrociare rapidamente i dati con altre sezioni. La Sezione parte da zero. La frustrazione non tarda a presentare il suo conto. Infiltrarsi è impossibile (nessuno ha un passato credibile come rivoluzionario). Le Brigate Rosse agiscono con prudenza e intelligenza. Dice il comandante Domenico Petrillo, nome di battaglia Baffo: «Tantissime volte abbiamo subito le umiliazioni del fallimento, e ci siamo scoperti impotenti davanti agli attentati». Dalla Chiesa però insiste: è la strada giusta. La Sezione inizia a raccogliere e studiare sistematicamente volantini, delibere pubbliche, materiale di propaganda. Dalla mole di carte, esce qualche informazione preziosa sulla struttura dell'organizzazione terroristica. L'8 settembre 1978, a Patrica, viene assassinato il magistrato Fedele Calvosa, insieme alla sua scorta (Giuseppe Pagliei) e al suo autista (Luciano Rossi). Resta a terra anche un criminale, abbattuto dal fuoco amico. In tasca ha le chiavi di un'automobile. È la primissima crepa nell'organizzazione. I carabinieri raccontano come abbiano scovato la vettura (un colpo di genio investigativo) e come l'abbiano sorvegliata, alla stazione ferroviaria di Latina, fino all'arrivo di un altro criminale. Ma la vera voragine si apre dopo l'assassinio, a Genova, del sindacalista Guido Rossa, stimato da tutti e militante del Partito comunista. Un errore strategico clamoroso, che non a caso divide l'organizzazione (la colonna di Roma emette un comunicato per criticare l'azione).

Molti comunisti ortodossi, e il Pci stesso, non sono più disposti a coprire «i compagni che sbagliano». Eloquenti sono le parole degli operai a commento della morte di Rossa: «Aveva ragione lui» (sottinteso: a voler disgiungere la lotta di classe dalla lotta armata). Proprio la collaborazione di un militante del Partito comunista permetterà alla Sezione speciale di «decapitare» la colonna romana (rappresentata, nel documentario, da Francesco Piccioni).

Nel frattempo, però, le Brigate Rosse sono all'apice della forza militare. Il 3 maggio 1979, un commando di una dozzina di terroristi assalta l'edificio in piazza Nicosia a Roma in cui si trovavano gli uffici regionali per il Lazio della Democrazia cristiana. Una prova di forza impressionante. Non solo la posizione è centrale. Ma le vie di fuga sono limitate dal fatto di trovarsi in pratica sul Lungotevere. Le Brigate Rosse volevano danneggiare il palazzo con tre cariche esplosive ma le cose vanno subito storte a causa di una suora in fuga. Ci sarebbe da sorridere se non ne fosse uscito uno scontro a fuoco nel quale persero la vita il maresciallo Antonio Mea e l'appuntato Pierino Ollanu. Pasquale Pandoli, detto Kawasaki, è tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto: «C'era sangue dappertutto. E l'odore del sangue non si dimentica.

Mai».

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