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Walter Tobagi, il giornalista che cercava la verità

“Anni di piombo e guerra fredda, un clima di paura e silenzi”

Walter Tobagi, il giornalista che cercava la verità

Era il 28 maggio 1980, quando il giornalista Walter Tobagi fu ucciso da una cellula terroristica di estrema sinistra. Uno dei tanti delitti consumati negli anni di piombo, quando anche la stampa libera finì sotto attacco. Il programma Psiche Criminale, in onda sul canale 122 Fatti di Nera, ha ripercorso la storia di Tobagi, ucciso ad appena 33 anni, dopo aver condotto un’inchiesta proprio sul terrorismo che insanguinò l’Italia in quel terribile periodo.

Giornalista umbro originario di Foligno, dal 1972 passò giovanissimo al Corriere della Sera. Per il giornale nazionale di Milano divenne l’inviato che seguiva in modo sistematico il terrorismo, le Brigate Rosse e le bande armate di estrema sinistra. Il suo metodo era rigoroso: appunti, telefonate di verifica, leggi e documenti consultati prima di scrivere ogni singolo articolo. Tobagi puntava a una sola cosa: la verità. Analizzava il terrorismo senza indulgenza, ma anche senza demonizzazioni facili. Spiegava come le organizzazioni armate puntassero a colpire riformisti, magistrati e giornalisti progressisti per far saltare quel cuscinetto che difendeva la democrazia. Ma fu proprio questa sua lucidità a trasformarlo, agli occhi dei terroristi, in un bersaglio.

Il 28 maggio 1980, in via Salaino a Milano, verso le 11, Tobagi uscì di casa per andare in garage, ma un commando della Brigata XXVIII Marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra, era lì ad attenderlo. A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone, che lo colpirono con cinque proiettili: uno al cuore gli fu fatale, mentre, quando il giornalista era già a terra, Barbone gli sparò un ulteriore colpo dietro l’orecchio sinistro, convinto di dargli il colpo di grazia. Tobagi morì sul marciapiede, a soli 33 anni, lasciando la moglie Maristella e i figli Luca e Benedetta, ancora piccolissimi. Nel giro di pochi mesi, carabinieri e magistratura individuarono i mandanti e i responsabili del brutale omicidio. Marco Barbone venne arrestato il 25 settembre 1980, ma decise subito di collaborare con la giustizia. Le sue confessioni permisero agli inquirenti di smantellare il gruppo e portare all’arresto di oltre un centinaio di sospetti terroristi di sinistra. Nel 1983 si aprì il maxiprocesso con più di 150 imputati, che non riguardava solo l’omicidio di Tobagi ma l’intera area della sovversione armata.

La sentenza segnò un punto di svolta: grazie alle leggi sui pentiti, Barbone e altri collaboratori ottennero pene molto ridotte e la libertà provvisoria dopo pochi anni di carcere. “Fu un periodo brutto per il nostro Paese, quello tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 – ha sottolineato Giuseppe Paccione, European Affairs Magazine – con omicidi di personaggi come giornalisti e magistrati che credevano nella difesa dello Stato e dei cittadini italiani. Tobagi era uno di quelli. La figura dei giornalisti era ritenuta troppo scomoda perché raccontano la verità, cosa che mette a repentaglio la loro vita. In quel periodo accade spesso che giornalisti vengano minacciati, percossi, feriti a colpi di pistola e, purtroppo, qualcuno ci rimette la vita. Tobagi credeva nei valori fondamentali della libertà di espressione. Era un periodo critico, eravamo in piena guerra fredda, e gli agenti del KGB in Italia erano una presenza che serviva per imporre al nostro Paese di aderire al Patto di Varsavia. Ma non dobbiamo dimenticare che fu anche il periodo in cui Berlinguer disse di preferire restare sotto l’ombrello della NATO, un’affermazione che non fu accettata dall’Unione Sovietica, perché la considerarono una disobbedienza”.

“Quelli erano gli anni vissuti in pieno – ha aggiunto il giornalista Marco Gregoretti – e bisogna pensare che il padre di uno dei killer, Marco Barbone, era dirigente di una casa editrice, la Sansoni, costellazione Rizzoli, storicamente fucina di sindacalismo estremo. Poi c’erano Morandini, figlio di un collega di Tobagi, visto che il padre, Morando Morandini, era lo storico critico cinematografico de Il Giorno. Il pentimento del ’77 non ha evitato il rapimento Moro e, dal punto di vista della cronaca, Tobagi stava investigando e stava per pubblicare l’elenco dei nomi di chi frequentava uno dei covi dell’organizzazione che poi lo ha ucciso. La sera prima, a un convegno, disse: “Chi sarà il prossimo?”, perché aveva paura. Ne aveva parlato tempo prima con Carlo Casalegno, che era stato suo mentore, gambizzato e poi morto per una emorragia femorale. Il clima era questo.

La Brigata era un’organizzazione, una costellazione del terrorismo estremista di sinistra. Chi ha vissuto quegli anni, sia come impegno politico e civile, sia come cronista, ha vissuto in una bolla, per certi versi inspiegabile. Andavamo alle manifestazioni con costantemente in mente la P38. Davanti casa mia, una mattina, comparve una scritta contro di me. Chi ha ucciso? Chi aveva interesse? È una domanda che mi faccio ancora adesso. Fu un sistema a uccidere, un sistema che aveva interesse a colpire determinate persone che rappresentavano il rischio di arrivare a delle verità. Non si può non ascrivere tutto ciò che accadeva in quel periodo alla guerra fredda o legarlo ad ambedue i blocchi.

C’erano avamposti del KGB in Italia che potevano avviare una situazione di terrore quotidiano. Se non si considera questo, non si capisce fino in fondo”. Roberto Bertoni, giornalista di Articolo 21, ha sottolineato come “Benedetta Tobagi quasi non ha conosciuto suo padre Walter: aveva solo 3 anni quando lui morì. Ha sempre detto che ha dovuto ricostruire la sua figura. Enzo Biagi disse che aveva la dignità di chi vuole soltanto capire, ricordando quella premonizione. Tobagi scriveva che i terroristi non erano samurai invincibili; aveva capito che in quell’area ci fosse ormai una crisi di coscienza iniziata tre anni prima, con il delitto Casalegno, vicedirettore de La Stampa, mentre il figlio era militante di Lotta Continua.

C’era stata una serie di pentimenti, ma anche delitti che avevano scosso l’opinione pubblica. Cominciavano a mutare il corso delle cose. In alcuni ambienti, c’era un grande consenso per le Brigate Rosse: era ritenuta quasi “glamour” e necessaria una certa violenza”.

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