Il quarto governo De Gasperi, varato nel giugno 1947, è, probabilmente, il ministero più importante della storia repubblicana. Fino a quel momento vi era stato un esecutivo formato dalla Dc e dai due partiti delle sinistre socialisti e comunisti che, invece, con il nuovo governo uscirono dall'area ministeriale e videro nascere un monocolore democristiano appoggiato dall'esterno da due partiti collocati alla destra del partito di Alcide De Gasperi. La squadra di governo fu integrata con alcune personalità liberali di indubbia autorevolezza e tra queste spiccava Luigi Einaudi che ricoprì il ruolo di ministro del Tesoro e poi anche del Bilancio, conservando la carica di governatore della Banca d'Italia. Con la sua politica economica e finanziaria Einaudi riuscì a porre sotto controllo l'inflazione ed a gettare le basi di quello che poi sarà chiamato miracolo economico. Son cose che si sanno, anche se è meglio rinfrescarsi la memoria. Ciò che non si sa è che Einaudi non era del tutto persuaso dall'accettare l'incarico. Chi lo convinse? Benedetto Croce parlandogli al telefono.
A richiamare l'attenzione sulla tremenda telefonata come fu definita dallo stesso Croce è Fabio Fernando Rizi con il libro La difesa del centro. Turbamenti politici sul presente e l'avvenire nei Taccuini di lavoro di Benedetto Croce (1944 1951) pubblicato da Franco Cesati Editore.
Non è la prima volta che Rizi, che insegna Storia moderna a Toronto in Canada, si sofferma sull'attività politica di Croce mettendo in luce l'avvedutezza del filosofo in quanto politico. Del resto, alla caduta del fascismo tutta la vita di Croce venne stravolta e il filosofo, suo malgrado, non poté non farsi politico, correndo anche rischi personali: prima con il tentativo di rapimento da parte dei tedeschi, quando era a Sorrento e dovette trasferirsi sull'isola di Capri e poi con l'attacco portatogli da Togliatti, due mesi dopo l'assassinio di Gentile, che lo accusò di collaborazionismo con il regime di Mussolini.
L'obiettivo del capo dei comunisti era chiaro: prendere possesso, secondo l'insegnamento di Gramsci, della cultura italiana. Quindi, quando nel maggio del 1947 ci fu prima la crisi di governo, poi la fine del Cln e poi il tentativo di far nascere il IV governo De Gasperi senza i comunisti e i socialisti, Croce sapeva bene cosa c'era in gioco. Ecco perché chiamò Einaudi al telefono appena seppe che non voleva entrare nel nuovo esecutivo. "Prima delle sette, stavo ancora a letto scriveva il 30 maggio 1947 nei suoi Taccuini , è venuto Renato Morelli, che era molto inquieto per la riluttanza di Einaudi di entrare nel ministero del De Gasperi, il che mette a rischio di tornare in piena e disperata crisi di governo". Allora? "Mi sono attaccato al telefono e mi sono messo in comunicazione con l'Einaudi, pregandolo e supplicandolo di non chiudersi nella negazione, perché questa non solo sarebbe la rovina del Paese ma un'accusa contro noi liberali, che assai ci danneggerebbe". Ed Einaudi? Come fece in altre circostanze ascoltò il "fratello maggiore".
Le cose si misero per il meglio: "L'Einaudi ha opposto le difficoltà che non sono state ancora rimosse all'opera sua, e gli ulteriori discorsi da fare col De Gasperi. Infine gli ho chiesto che, prima di dire un no, avrebbe riparlato con me, ed egli l'ha promesso". Così più tardi da Roma il Cassandro ci ha avvertito che la disposizione dell'Einaudi è diventata migliore. Alle 12, mi è stata comunicata l'accettazione da lui data".
Questa storia per noi oggi è particolarmente istruttiva. Il nuovo governo, infatti, fu subito accusato di essere fascista e a farlo furono - e chi se no? - gli intellettuali che Togliatti da una parte bastonava e dall'altra accarezzava. È il caso di Luigi Russo che accusò il governo di fascismo e clericalismo. Croce gliene cantò quattro per lettera così scrivendo: "Considerare come prepotenza il governo di una maggioranza parlamentare, uscita dalle urne e parlare di dittatura e di fascismo, è una follia, perché quello è l'andamento normale di tutti i parlamenti del mondo, modello inglese". E aggiunse: "Laddove il tripartito, esso era una prepotenza; e comunisti e socialisti nenniani non vogliono già combattere i democristiani, ma sedere al banchetto con loro, rovinando l'Italia col far male o col non lasciar fare".
Come si può vedere, il Croce politico ha un acuto senso delle cose pratiche e non si perde in sofismi. La cosa potrebbe destare meraviglia perché i filosofi in fatto di cose pratiche e politiche hanno la meritata fama di combinar pasticci. Tuttavia, fu Giolitti a dire di Croce, quando lo vide all'opera come ministro nel 1920, "però, quanto buonsenso ha questo filosofo". Ecco, per capire la ragionevolezza di Croce e il suo senso delle cose pratiche bisogna leggere il volumetto Eternità e storicità della filosofia. Si tratta di una piccola rarità uscita nel 1930 e mai più pubblicata autonomamente e che ora è stata riproposta dalle Edizioni Libreria del Castello.
In questo libretto Croce rivendica un assassinio speciale: "In Italia non vive più nell'animo degli uomini intelligenti la figura del Filosofo, del puro, del sublime Filosofo, di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell'Essere: non vive più, perché (se bisogna dire la verità, ancorché con qualche offesa della modestia, quel Filosofo io l'ho fatto morire".