Cronache

Un magistrato scomparso nel nulla e quegli strani giochi di spie

Paolo Adinolfi, il magistrato scomparso a Roma nel 1994, e le presenze ambigue che si affollato attorno a questo caso. Tra 007 infedeli, faccendieri e morti sospette

Un magistrato scomparso nel nulla e quegli strani giochi di spie

Fa un caldo infernale a Roma, il 2 luglio 1994. E, come una goccia d’acqua sull’asfalto rovente, Paolo Adinolfi sembra evaporare nel nulla. 52 anni, una moglie, una figlia e un figlio che non smetteranno mai di cercarlo. Adinolfi non è solamente un marito e un padre legatissimo ai propri affetti. Adinolfi – al momento della scomparsa – è giudice da appena un mese presso la IV Sezione Civile della Corte d’Appello. Precedentemente, ha passato dieci anni alla Sezione Fallimentare della Procura di Roma, nota come il “porto delle nebbie”.

E in quelle nebbie Paolo Adinolfi si è occupato di numerosi casi scottanti; fallimenti miliardari dove s’intrecciano nomi eccellenti della malavita romana e dell’alta finanza; un groviglio di fili scoperti dell’alta tensione che hanno polverizzato molte vite e – forse – anche quella del giudice scomparso. Sì, perché se la prima indagine condotta dal magistrato perugino Fausto Cardella [è la procura di Perugia che si occupa di quanto concerne i magistrati romani, ndr] giunge ad archiviazione dopo nemmeno due anni, imputando la scomparsa a un allontanamento volontario, la seconda – partita subito dopo -, sebbene arrivi a una seconda archiviazione, quanto meno fissa un punto fermo: il magistrato Alessandro Cannevale (oggi procuratore capo a Spoleto) ha infatti la certezza che Paolo Adinolfi non si sia allontanato volontariamente. Le conclusioni della seconda inchiesta parlano chiaro: Adinolfi è stato ucciso e il suo corpo occultato a causa del suo lavoro svolto alla Fallimentare.

Ne sono convinti i familiari e, dopo quasi trent’anni di silenzio, ne sono convinti molti magistrati che oggi riscoprono la vicenda del loro collega dimenticato per il tramite di una lodevolissima iniziativa letteraria: è infatti grazie a un libro – La scomparsa di Adinolfi (Castelvecchi) – che il caso è tornato a far rumore. I due autori – il giornalista Alvaro Fiorucci e l’investigatore della procura di Perugia Raffaele Guadagno – hanno avuto il merito di riportare questa storia alla luce del sole, non senza difficoltà.

Andarsi a studiare gli atti delle due inchieste – infatti – è come sporgersi verso un pozzo nero senza fondo. Quando, con tutte le precauzioni possibili, ci si cala in questo pozzo, le sue pareti lisce, quasi completamente prive di appigli, portano ad annaspare nel buio, inghiottiti verso il basso. Ma se non ci si lascia prendere dal panico di fronte alle migliaia di pagine, se si tasta attentamente, ecco spuntare qualche interruttore. La luce fioca, allora, illuminerà persone, fatti e circostanze apparentemente slegate tra loro, ma in realtà unite da un filo rosso che porta a farle convergerle – in un modo o nell’altro – su questa vicenda. Quando poi tutti gli interruttori saranno abbassati, il pozzo sembrerà meno profondo, ma la scomparsa di Paolo Adinolfi si mostrerà per quello che è: l’albero genealogico dei misteri d’Italia.

Quello che maggiormente colpisce di questa vicenda è la massiccia presenza di uomini e donne dei servizi segreti che, per varie ragioni – non necessariamente scollegate tra loro –, si affollano attorno all’ombra del magistrato scomparso. Si parte dagli inquilini della seconda casa della famiglia Adinolfi. Una casa per le vacanze costruita negli anni Settanta in una frazione di Manziana; una casa tranquilla, molto isolata, perfetta per chi cerca relax o discrezione. Una volta cresciuti i figli, il giudice e sua moglie, Nicoletta Grimaldi, decidono di darla in affitto. Attraverso un agente immobiliare della zona, entrano in contatto con un giovane uomo che si presenta come pilota Alitalia. Il giovane uomo è Vincenzo Fenili e quella di pilota è una delle sue tante coperture. Sì, perché Fenili – nome in codice Kasper – è in realtà un agente segreto, ex carabiniere e, come lui stesso si definisce, un contractor del Ros, arruolato giovanissimo in Gladio, protagonista di vicende non sempre chiare che lui stesso ha raccontato in due libri di successo, nei quali non si fa mai menzione del magistrato scomparso.

In questa casa – curiosamente distante molti chilometri sia dall’aeroporto di Fiumicino, che da quello di Ciampino, ma molto vicina a importanti basi militari come quelle di Furbara e Vigna di Valle – Fenili convive con una sua fidanzata dell’epoca, Karie Hamilton, americana, di professione fotografa.

“Ricordo un particolare – ci racconta Lorenzo Adinolfi, figlio del magistrato – una volta sentii mia madre e mio padre commentare un fatto strano: questa ragazza aveva mostrato loro alcuni dei suoi scatti. Molti dei quali ambientati in luoghi difficilmente accessibili a dei civili, come basi aeree o navi militari”.

Incontriamo Vincenzo Fenili/agente Kasper seduti al tavolino di un bar. Risponde gentilmente alle domande e dà la sua versione dei fatti: l’essere finito a casa di un magistrato è stata solo una casualità. Quando gli chiediamo della Hamilton – se veramente fosse una fotografa – esita qualche secondo, ma alla fine risponde: “Si, era veramente una fotografa, ma venne arruolata dal Sismi”.

E non finisce qui. Nel 1992 Fenili lascia l’abitazione, ma prima di trasferirsi presenta ai padroni di casa una sua amica: Marzia Petaccia. La donna si rivela al giudice e sua moglie per quello che è: impiegata presso la Presidenza del Consiglio. Solo alcuni anni dopo si saprà che l’impiego era presso il Sisde, il servizio segreto civile. Anche in questo caso, Lorenzo Adinolfi ricorda un aneddoto curioso: “Una volta mio padre, che era stato a Manziana per qualche motivo che non ricordo, tornò piuttosto sorpreso. In casa, nel soggiorno, aveva visto qualcosa. Gli era sembrato un componente di un lancia missili”. Considerando che sia la Petaccia sia Fenili finiranno implicati – nel 1994, prima della scomparsa di Adinolfi – in quello che viene (da pochi) ricordato come il tentato golpe di Saxa Rubra, dove pare che un manipolo di esaltati volesse attaccare la sede Rai e i palazzi delle istituzioni con elicotteri da guerra e bombe al neutrone, chiediamo a Fenili (che per questa vicenda verrà rinchiuso – ex ordinovista - a Rebibbia nella stessa cella dei brigatisti Germano Maccari e Giovanni Senzani) se il ricordo di Lorenzo sia plausibile: “Non credo fosse un componente di un lancia missili – ci risponde Kasper – piuttosto poteva trattarsi di un componente di un caccia militare, forse un Tank sub-alare... il padre della Petaccia era un ufficiale pilota dell’Aeronautica”.

Spostandoci da Manziana, anche nella casa di Roma, in zona della Farnesina, troviamo una presenza particolare. A farcelo notare è un investigatore della Dia che all’epoca si occupò del caso nell’ambito della seconda inchiesta: “Il portiere del condominio dove vivevano gli Adinolfi era stato un carabiniere”. Fin qui nulla di strano, se non fosse che, poco dopo la scomparsa del giudice, l’uomo viene licenziato: sembra sottraesse la posta di alcuni inquilini, in particolare quella della famiglia Adinolfi. Sempre l’investigatore della Dia: “All’epoca non potemmo fare granché... erano passati già due anni dalla scomparsa, ma certamente se qualcuno legato ai servizi avesse voluto tenere d’occhio il giudice, i suoi orari, i suoi spostamenti e la sua corrispondenza... quale persona migliore di un portiere già membro dell’Arma?”.

A pensar male si fa peccato, ma non siamo i primi.

Nel luglio del 1996 – poco prima che il caso venisse riaperto con ritrovato slancio dopo aver incassato la prima archiviazione – un’agenzia di stampa molto particolare pubblica un articolo altrettanto particolare. L’agenzia è la “Publicondor”, il cui fondatore è il leader di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie. Notoriamente molto vicino agli ambienti opachi dei servizi di quegli anni, Delle Chiaie ospita un articolo dal titolo: “Caso Adinolfi: il giudice fu Sisdemato?”, adombrando – con un gioco di parole per nulla allusivo – un ruolo del Sisde nella scomparsa del magistrato. In questo articolo vengono citati alcuni dei fallimenti eccellenti trattati da Adinolfi, evidenziando in particolare quelli relativi a società di copertura dei servizi. Si parla del crack dell’Ambra assicurazioni (200 miliardi di lire di passivo) e della Fiscom Finanziaria. Ma non solo: “Questi retroscena del caso Adinolfi – si legge – li avrebbe rivelati ai giudici nelle scorse settimane Francesco Elmo, faccendiere siciliano, a suo dire in confidenza con il colonnello del Sismi Mario Ferraro. Anche lui sistemato per le feste? Funebri, naturalmente”.

Ed ecco che la vicenda prende una piega talmente improvvisa da dare il capogiro.

Su Francesco Elmo ci sarebbe molto da dire, ma non è questo il momento. Arrestato nell’ambito dell’inchiesta nata dalla procura di Torre Annunziata e denominata Cheque to cheque, dove i procuratori Paolo Fortuna e Giancarlo Novelli si trovano quasi per caso a dover indagare su un incredibile traffico internazionale di armi, denaro e materiali come l’uranio, Elmo – soprannominato “il cinese” per gli occhi a mandorla – parla e riempie interi verbali, dosando attentamente le cose da dire e i cassetti della memoria da aprire. Sono proprio le sue parole a far ripartire le indagini sulla scomparsa di Adinolfi nel 1996.

Collaboratore sia del Sismi che del Sisde (stando alle sue dichiarazioni, è doveroso precisarlo), Elmo racconta di aver collaborato intensamente, per circa un paio di anni, con Mario Ferraro, il colonnello cui si fa riferimento nell’articolo pubblicato su Publicondor e che viene trovato impiccato nel bagno di casa sua, a Roma, zona Torrino, il 16 luglio 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccano terra.

Anche sulla vicenda Ferraro ci sarebbero molte cose da dire, quello che qui è importante sapere è che Elmo racconta agli inquirenti di essersi infiltrato per conto del colonnello all’interno degli uffici di un commercialista svizzero. In questi uffici, Ferraro gli avrebbe chiesto di monitorare – tra le altre cose – qualsiasi riferimento a un tale Mugne e a un nome sinistramente evocativo: Shifco.

Omar Said Mugne è un imprenditore di origine somala, titolare della Shifco, una società di diritto somalo proprietaria di alcune navi, per la precisione pescherecci, donate dal governo italiano al paese africano. Due nomi che rimandano al disastro (leggi anche “strage”) del Moby Prince (10 aprile 1991) e all’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (20 marzo 1994). Fatta questa parentesi, arriviamo al punto: per quale motivo le parole di Elmo ottengono la riapertura del caso Adinolfi?

Il collaboratore di giustizia racconta di un sodalizio alquanto strano (ma non impossibile, stando a quanto ci dicono alcuni addetti ai lavori) tra Sismi e Sisde, rispettivamente rappresentati da un lato da Mario Ferraro (conosciuto da Elmo come “Bobby”) e tale Giuseppe Di Maggio (mai identificato); dall’altro da un pezzo da novanta del servizio segreto civile: Michele Finocchi, conosciuto come “Martinelli”, già implicato nella vicenda della morte della contessa Alberica Filo della Torre e – nel 1993 – tra i protagonisti del cosiddetto “Sisdegate”, lo scandalo che fece tremare le più alte istituzioni dello Stato (ricordate il “non ci sto” dell’allora presidente Scalfaro? Ecco). Non si capisce bene il motivo per cui Ferraro e Finocchi dovessero collaborare, ma se il sodalizio procede sotto il segno di una proficua collaborazione per qualche tempo, a un certo punto tanto Bobby/Ferraro, quanto Di Maggio ammoniscono Elmo: Martinelli/Finocchi è passato “dall’altra parte”. Non specificano “quale” parte, ma gli dicono di stare molto attento e, in caso di avvistamento, di chiamare un tale Carlo, capostruttura del Sisde a Vicenza, città epicentro di un’altra storia al limite del grottesco che coinvolge un inconsapevole esperto di informatica, Carlo Alberto Sartor, e Mario Ferraro, ma anche questa è un’altra storia.

Michele Finocchi, inseguito da un ordine di cattura, sarà latitante in Svizzera per diversi mesi e verrà arrestato il 25 luglio 1994. Secondo il racconto di Elmo, due mesi prima, il 20 maggio (anche se gli inquirenti collocano questo fatto al 23 dello stesso mese), avviene qualcosa.

Il faccendiere siciliano si trova a Roma, presso l’hotel Sheraton in zona Magliana. È in compagnia di altre persone per questioni di affari (sporchi, neanche a dirlo). È seduto nella hall quando vede entrare nell’albergo l’uomo che conosce come Martinelli.

Lo 007 latitante si fa incontro a una persona già presente nella hall e fino a quel momento rimasta in disparte. I due si parlano cordialmente per alcuni minuti prima di separarsi. Dell’ignoto interlocutore di Finocchi, Elmo ricorda gli occhiali da vista – molto grandi – e la calvizie incipiente.

Due mesi dopo, attorno al 20 luglio, il “cinese”, durante un incontro a Roma, relaziona a Bobby/Ferraro dell’avvistamento. Il colonnello del Sismi gli mostra una foto: “È questo l’uomo che hai visto con Finocchi?”. Elmo dice di si, è proprio lui. Ferraro mette via la foto. Gli dice che l’uomo ritratto è Paolo Adinolfi, il magistrato scomparso pochi giorni prima. A questo punto, dice a Elmo di non farsi più vedere nella Capitale. Gli stessi uomini che hanno fatto sparire il giudice – a suo dire appartenenti alla banda della Magliana – potrebbero uccidere anche lui. Questa è l’ultima volta che Elmo e Ferraro s’incontreranno. Ma se il collegamento tra Adinolfi e Ferraro viene accreditato principalmente dalle parole di un collaboratore di giustizia ambiguo, c’è agli atti un’ulteriore traccia. Si tratta di un articolo del settimanale “Avvenimenti” datato 15 maggio 1996. In questo articolo si dice che nel corso della sua attività, il giudice Adinolfi avrebbe omologato il cambio di denominazione di una società di Maria Antonietta Viali, la compagna di Mario Ferraro (sarà proprio lei a rinvenire il cadavere e a raccontare che nelle settimane prima della morte l’agente del Sismi si mostrava preoccupato ai limiti della paranoia). Un indizio? Una suggestione? Difficile dirlo e soprattutto non sta a noi, ma certamente i tasselli di questa storia sembrano incastrarsi tra loro con inquietante facilità.

La carrellata di presenze ambigue a far da corollario a una vicenda ancora più ambigua potrebbe protrarsi all’infinito, ma noi la terminiamo con l’ultima figura sfuggente che fa capolino dalle carte dell’inchiesta.

Il 23 febbraio 1995, il cognato di Adinolfi, magistrato a sua volta, scrive una lettera al procuratore titolare della prima inchiesta, Fausto Cardella, facendo seguito a una precedente telefonata. Pochi giorni prima, il 15 febbraio, un suo collega magistrato gli ha riportato la conversazione avuta con un conoscente, tale Angelo Demarcus, erroneamente indicato nella lettera quale appartenente al Sismi, mentre invece è un capitano di fregata in quiescenza appartenente al Sios Marina. Demarcus – il cui nome compare anche nella vicenda di Ustica - avrebbe raccolto informazioni secondo cui Paolo Adinolfi sarebbe stato ucciso per il suo coinvolgimento professionale nel fallimento della Fiscom. Il cognato di Adinolfi aggiunge che Demarcus avrebbe fatto un collegamento tra la scomparsa del cognato e altre oscure vicende, come il già citato delitto dell’Olgiata, i delitti della Uno Bianca e la morte di Sergio Castellari. Non sappiamo il nome del collega del parente di Adinolfi, né se sia stato sentito, ma sappiamo la versione che dà Demarcus: nessun mistero, nessuna rivelazione. Le sue sarebbero solo congetture sorte per caso mentre si occupava di una truffa ai suoi danni. Lo spiega lui stesso il 10 marzo 1995 di fronte agli inquirenti.

Coinvolto in un’intricata vicenda che vede il coinvolgimento di una cooperativa edilizia, Demarcus si fa investigatore e passa molto tempo a cercare documenti presso la cancelleria del Tribunale Civile di Roma. Tra questo mare di carte, gli capitano in mano quelle dei fallimenti di alcune società il cui titolare risulta Paolo Adinolfi. Di qui alcune ipotesi condivise “con altre persone e con alcuni giornalisti” riguardo la fine del magistrato, ma – neanche a dirlo - nessuna certezza.

Bisogna specificarlo: nulla di quanto fin qui accennato può considerarsi come elemento determinante la scomparsa di Paolo Adinolfi. Certo è che dall’oscurità del pozzo di questa vicenda le sorprese, le incredibili connessioni, i personaggi da film di spionaggio non mancano di certo. Quello che manca, purtroppo, è una tomba su cui piangere per la famiglia. Quello che manca è la verità. Quello che manca è il ricordo di un magistrato dalla schiena dritta che, poco prima di scomparire, confida a un collega di sentirsi spiato e che solo una settimana prima di evaporare come una goccia d’acqua aveva telefonato a Milano, parlando con il collega Carlo Nocerino, che in quel momento si stava occupando di un filone del fallimento di Ambra Assicurazioni. Doveva condividere con lui alcune informazioni che gli sarebbero state utili ai fini dell’indagine.

Come sappiamo, non gli è stato permesso.

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