
Il 9 maggio 1997, Marta Russo, studentessa di giurisprudenza di 22 anni, fu colpita mortalmente da un proiettile mentre passeggiava nei viali dell’Università La Sapienza di Roma. Cinque giorni dopo morì in ospedale. Quel colpo, partito da un’arma mai ritrovata, diede inizio a uno dei casi giudiziari più controversi e discussi della storia italiana, ancora oggi segnato da dubbi irrisolti e interrogativi inquietanti.
Fin dalle prime ore, le indagini si rivelarono complesse: nessun elemento nella vita di Marta suggeriva un movente per un omicidio. Gli investigatori ipotizzarono lo scambio di persona (forse la vera vittima doveva essere l’amica Jolanda Ricci, figlia di un dirigente del Ministero della Giustizia), il terrorismo, il “delitto perfetto” o addirittura uno sparo accidentale. Nessuna di queste piste fu però confermata in modo definitivo. Il movente resta ancora oggi uno dei punti più oscuri: la sentenza finale parlò di un colpo esploso “per errore”, forse per provare l’arma o senza sapere che fosse carica, ma senza alcuna spiegazione logica o psicologica.
Il processo si basò su testimonianze raccolte in un clima di forte pressione investigativa e mediatica. In particolare, la dipendente universitaria Gabriella Alletto, dopo lunghi interrogatori, indicò Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro come presenti nell’aula da cui sarebbe partito lo sparo. Tuttavia, la sua versione fu considerata da molti esperti poco attendibile e frutto di una metodologia investigativa discutibile. Altre testimoni chiave, come Maria Chiara Lipari, modificarono più volte i propri ricordi, anche a seguito di pressioni psicologiche: le loro dichiarazioni non combaciavano tra loro e non furono mai supportate da riscontri oggettivi.
Nessuno vide direttamente lo sparo, e nessuno dei numerosi studenti presenti riconobbe Scattone o Ferraro quel giorno. Solo mesi dopo, tre testimoni fornirono versioni discordanti, senza che queste convergessero su una ricostruzione univoca dei fatti. Inoltre, alcune piste alternative – come la presenza di persone abituate a maneggiare armi all’interno dell’università – non furono approfondite dagli inquirenti.
L’arma del delitto, una pistola calibro 22, non fu mai trovata. Le perizie balistiche e scientifiche furono oggetto di scontro tra accusa e difesa: quella che per la polizia era polvere da sparo, poteva essere residuo di freni o di stampanti. La scena del crimine fu contaminata e la ricostruzione del luogo dello sparo fu giudicata da molti improbabile per posizione e ubicazione. Le sentenze, dopo numerosi annullamenti e revisioni, portarono alla condanna di Scattone per omicidio colposo aggravato e di Ferraro per favoreggiamento, ma entrambi si sono sempre dichiarati innocenti.
A distanza di quasi trent’anni, il delitto di Marta Russo resta una ferita aperta nella memoria collettiva. La verità giudiziaria non ha dissipato i dubbi: il movente è ancora ignoto, le testimonianze sono fragili e le prove restano incerte. Il nome di Marta Russo continua a evocare il mistero di un omicidio inspiegabile e assurdo, simbolo dei limiti della giustizia e delle ombre che ancora avvolgono la vicenda.
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Omicidio di Lidia Macchi: il mistero della lettera e il peso dei silenzi

Sono passati 37 anni dall’omicidio di Lidia Macchi, ma il suo volto continua a interrogare l’Italia. Studentessa di Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, impegnata in parrocchia e nella comunità di Comunione e Liberazione, Lidia era il ritratto della “brava ragazza”: casa, studio, volontariato, fede. La sera del 5 gennaio 1987 uscì con la Panda di famiglia per visitare un’amica ricoverata a Cittiglio. Da quel momento, il buio. Due giorni dopo, il suo corpo fu trovato in un bosco, accanto all’auto, coperto da un cartone: 29 coltellate, segni di violenza sessuale, nessun testimone.
L’omicidio di Lidia Macchi è diventato uno dei cold case più emblematici d’Italia anche per la lunga scia di errori investigativi e depistaggi che lo hanno segnato. All’epoca, la scena del crimine fu compromessa da rilievi approssimativi: mancavano le tecnologie di oggi, nessun DNA, nessun tracciamento telefonico. La pressione sulla polizia era enorme, ma la cerchia dei conoscenti – in particolare l’ambiente di Comunione e Liberazione – si chiuse a riccio, alimentando sospetti e veleni.
Le indagini si divisero tra la pista del maniaco e quella interna al gruppo di amici e conoscenti. Per anni, un sacerdote, don Antonio Costabile, rimase indagato senza prove concrete, vivendo sotto il peso del sospetto fino al 2014, quando fu definitivamente prosciolto.
Un aspetto centrale e ancora oggi avvolto nel mistero è la lettera anonima ricevuta dai genitori di Lidia il giorno del funerale: una poesia intitolata “In morte di un’amica”, dal tono mistico e inquietante, che definiva la vittima “agnello sacrificale”. La lettera sembrava scritta da chi conosceva bene la ragazza e le sue convinzioni religiose, ma conteneva anche allusioni sessuali e dettagli che fecero pensare a un coinvolgimento diretto nell’omicidio.
Solo molti anni dopo, una perizia calligrafica attribuì la lettera a Stefano Binda, ex compagno di liceo di Lidia e frequentatore degli stessi ambienti religiosi. Nel 2016 Binda fu arrestato e condannato in primo grado all’ergastolo, ma nel 2018 venne assolto in appello e poi in Cassazione: il DNA trovato sul corpo di Lidia non era il suo, e il suo alibi risultò credibile. Un avvocato dichiarò che un suo cliente, estraneo ai fatti, aveva scritto la lettera solo per manifestare il proprio cordoglio, senza conoscere Lidia.
L’omicidio di Lidia Macchi resta irrisolto, segnato da indizi inconsistenti, false piste e una comunità che ha preferito il silenzio alla collaborazione. Il caso ha rivelato anche le doppie vite di alcuni sospettati, soprattutto tra i prelati, e la difficoltà di indagare in un ambiente chiuso e protetto.
Oggi, la speranza di trovare la verità si affida alla possibilità che qualcuno, dopo tanti anni, decida di parlare. La famiglia Macchi, la comunità di Varese e l’opinione pubblica continuano a chiedersi chi abbia voluto spegnere la vita di una ragazza così luminosa, e perché. Ma la risposta, forse, giace ancora sepolta tra i segreti di una notte d’inverno e le pieghe di una lettera mai davvero decifrata.
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