
Avversari del totalitarismo, in genere, si diventa dopo averlo sperimentato di persona. Intellettuali come Ignazio Silone e Arthur Koestler hanno descritto quella presa di coscienza dolorosa. Ma se imboccare la propria "uscita di sicurezza" dal comunismo è comunque difficile, lo è ancor più mettere a nudo, pubblicamente e vincendo i pudori, le motivazioni intime dei propri errori. Il che avviene in un libretto esile di pagine ma denso di autocritica, firmato dal fiumano Diego Zandel (Autodafé di un esule, Rubbettino, pagg. 96, euro 12), che gli è valso il Premio Tomizza. L'interesse di queste pagine non sta nelle ambizioni letterarie, ma nella sincerità spietata con cui Zandel, figlio di profughi, nato e cresciuto in uno dei 109 campi allestiti nel dopoguerra dal governo italiano, ripercorre le ragioni della sua colpevole opacità ideologica, al tempo in cui parlare delle foibe era sconsigliabile e proibito, non soltanto a sinistra. Come è potuto succedere?, si domanda con la maturità di oggi. Come ho potuto essere così cieco? Dopo che la verità anche per lui è diventata evidente, e il Giorno del Ricordo ha conferito una dimensione di ufficialità alla tragedia, i contorni della vergognosa autocensura sembrano, a lui stesso, incredibili. E li denuncia senza veli.
Con una premessa significativa: Zandel non rinnega la sua scelta politica di sinistra antifascista, che lo accomuna a tanti personaggi fiumani, istriani e dalmati, come gli scrittori Enzo Bettiza e Fulvio Tomizza, il cantautore Sergio Endrigo, l'ex presidente della Acli Livio Labor, la comunista eterodossa Rossana Rossanda, e naturalmente Leo Valiani. Il pentimento nasce invece da ciò che lui stesso chiama obnubilamento e rimozione, abiura e anestesia politica. Le cui radici profonde, per quanto personali, sono esemplari. Anzitutto una forma di rivolta adolescenziale nei confronti del padre, partigiano nella Jugoslavia di Tito, diventato anticomunista ed esule dopo aver compreso il piano nascosto dietro agli slogan di fraternità socialista: liquidare la minoranza italiana e spingere le conquiste di Belgrado fino all'Isonzo, innestando sull'internazionalismo marxista un razzismo etnico panslavista. Poi, il condizionamento ideologico legato alla sua parte politica, che gli imponeva di sacrificare l'identità di esule alla propaganda: le foibe erano strumentalizzate dalla destra; gli "eccessi" dei titini si potevano spiegare come comprensibile reazione alle violenze precedenti dei fascisti; non contavano le poche centinaia di vittime italiane (il riduzionismo comunista di allora le limitava a cinquecento) in confronto ai milioni di ebrei assassinati da Hitler. L'identità di esule fiumano - così gli impartivano i compagni di partito - poteva essere confessata quale "dato irrilevante di pura provenienza", purché non venisse citata nei dibattiti pubblici. Poi, naturalmente, era arrivato il Sessantotto, con la sua chiamata all'impegno anticapitalistico, che escludeva distinzioni fra "rivoluzionari". Ancora, curiosamente, aveva il suo peso la frequentazione di ragazze slave, che agli occhi di un giovane fiumano contribuivano a creare una visione mitica e retorica della "lotta popolare", come veniva chiamata allora in Jugoslavia la Resistenza. E nemmeno questo era tutto, perché la vita privata stessa, con le sue scelte, lo spingeva nella medesima direzione: il fidanzamento e poi il matrimonio con la figlia di un comunista; la naturale complicità sentimentale; la partecipazione alle sofferenze patite del suocero durante la guerra; il peso della sua riconoscenza per essere stato liberato dall'Armata Rossa quando era prigioniero dei tedeschi. Infine, c'era la fascinazione comune a tanti per la figura di Enrico Berlinguer, che sembrava rinnegare la sudditanza verso l'Unione Sovietica. Tutte queste cose messe insieme, racconta Zandel, lo hanno portato a ondeggiare politicamente fra comunisti, anarchici, socialisti, sempre confusamente alla ricerca di una personale "uscita di sicurezza" dal totalitarismo, dove l'identità di esule funzionava comunque da antidoto, da remora che gli impediva di assoggettarsi irreparabilmente al credo comunista.
Giunge a questo punto, come in ogni dramma che si rispetti, il momento della redenzione, e con la guarigione l'esigenza di riparare agli errori, riconciliarsi con la figura paterna, e proclamare evangelicamente la verità anche dai tetti. L'occasione coincide con la messa in scena, cui lo stesso Zandel collabora, di una rappresentazione teatrale, dove si denunciano i crimini di un partigiano efferato di Tito: quell'Oskar Pikulic, torturatore e assassino di oppositori, invano processato da noi a causa di un riconosciuto "difetto di giurisdizione". È il momento del risveglio, l'uscita dal lungo periodo di oblio.
Ma se l'esigenza di giustizia per Pikulic non ha avuto soddisfazione, la descrizione delle false motivazioni e della "anestesia morale" subita da Diego Zandel oggi chiama in causa quelli che, ancora, non riescono a liberarsene.