
Se è vero, come ha osservato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che Israele ha spinto oltre il principio di proporzionalità nel difendere se stesso, è altrettanto vero che i suoi avversari hanno da sempre oltrepassato il limite del consentito nella violenza esercitata in nome della causa palestinese.
Può apparire persino comprensibile che da un palcoscenico come la Mostra di Venezia partano reazioni emotive di fronte alle immagini della devastazione di Gaza. Ma ciò che rende poco credibili e per certi versi ipocrite molte manifestazioni è la loro parzialità, lo strabismo con cui vengono formulate.
Il ragionamento è semplice, non ideologico: se gli appelli alla pace e alla fine delle violenze vengono rivolti sempre e solo a Israele, allora le possibilità sono due. O si considera Hamas per ciò che è, un'organizzazione terroristica impermeabile agli appelli della società civile, e in questo caso bisognerebbe riconoscere a Israele il diritto-dovere di combatterla con la forza; oppure si accredita Hamas come soggetto politico legittimo, con diritto di governo su una parte di quel territorio, e allora sarebbe necessario indirizzare gli appelli, le denunce e le pressioni in egual misura a entrambe le parti in conflitto.
La verità è che esiste, nella cultura politica europea e italiana, un radicato pregiudizio anti-israeliano che ha innervato la sinistra fin dalla nascita dello Stato ebraico. Israele non è mai stato riconosciuto come l'unica democrazia liberale di un'intera regione, presidio di valori e diritti comuni alla nostra civiltà, bensì come avamposto coloniale dell'imperialismo occidentale, custode di oppressione anziché baluardo di libertà. Una lettura nata negli anni della Guerra fredda, sopravvissuta al crollo del Muro e reincarnata in una versione terzomondista di accusa al capitalismo liberale.
Da qui discende una visione distorta della storia, purtroppo avallata anche da chi dovrebbe conoscerla. Una visione che ha trasformato la capacità di difesa israeliana in colpa: non quella di aver iniziato guerre, ma quella di non averle volute perdere. Perché, dal 1948 in avanti, ogni conflitto ha avuto origine da un attacco esterno: nel '48 furono Egitto e Siria a muovere guerra contro il neonato Stato, nonostante Israele avesse accettato la risoluzione ONU che prevedeva due Stati; poi Suez, la Guerra dei Sei Giorni, lo Yom Kippur, fino all'attacco di Hamas del 7 ottobre.
I territori oggi contestati, teatro di insediamenti e oggetto di accuse internazionali, non furono mai conquistati attraverso guerre di aggressione, ma a seguito di conflitti difensivi. Spesso, inoltre, Israele ha restituito parte di ciò che aveva guadagnato in battaglia.
Nessuno può rimanere indifferente di fronte alle sofferenze quotidiane nella Striscia di Gaza.
Ma gli appelli alla pace acquisteranno credibilità solo quando accanto alla richiesta di cessare le ostilità compariranno altre condizioni: lo scioglimento di Hamas, la liberazione degli ostaggi, il disarmo delle milizie, la punizione degli autori delle stragi di ottobre. E magari anche il rispetto dei diritti umani, che dovrebbero essere cari non solo alle coscienze selettive di una parte della nostra intellighenzia, ma a chiunque creda davvero nei principi di civiltà.