
Non è raro che, al momento di controllare il proprio estratto conto previdenziale sul sito dell’Inps, un lavoratore scopra dei “buchi”, mesi o anni in cui i contributi non risultano versati. In questi casi la prima domanda è inevitabile: cosa significa e, soprattutto, si può rimediare?
La questione
Il problema nasce quando il datore di lavoro non adempie all’obbligo di versare i contributi per la pensione. Per un certo periodo questi contributi possono essere richiesti e recuperati. Ma con il passare del tempo scatta la prescrizione: in pratica, dopo cinque anni l’Inps non può più pretendere quelle somme dal datore e i contributi si considerano persi.
La rendita vitalizia
Proprio per evitare che a pagare il prezzo di questa omissione sia solo il lavoratore, da tempo esiste uno strumento chiamato rendita vitalizia. La legge stabilisce che, quando i contributi non possono più essere recuperati, è possibile ricostruire la posizione previdenziale pagando un onere sostitutivo. In questo modo il periodo di lavoro viene comunque riconosciuto ai fini della pensione. La rendita può essere chiesta dal datore di lavoro che vuole rimediare alla propria omissione, ma anche dal lavoratore stesso, che può decidere di farsene carico, sia se è ancora in attività sia se è già in pensione. In caso di decesso, persino i superstiti possono avvalersi di questo strumento. L’Inps, con la circolare n. 48 del 24 febbraio 2025, ha chiarito le modalità di applicazione alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 203 del 2024, entrate in vigore il 12 gennaio 2025.
Provare l'esistenza del rapporto di lavoro
Non basta però presentare una semplice richiesta: occorre fornire prove solide dell’esistenza del rapporto di lavoro, come buste paga, lettere di assunzione, libretti di lavoro o documentazione aziendale. La legge e la giurisprudenza hanno sempre sottolineato che il rapporto deve risultare certo e non solo probabile, proprio per evitare il rischio di posizioni contributive inventate.
L'intervento della Cassazione
A mettere ordine sui tempi entro cui è possibile agire è intervenuta anche la Corte di Cassazione con una sentenza molto importante, la n. 22802 del 7 agosto 2025. I giudici hanno stabilito che i contributi omessi si prescrivono in cinque anni. Dopo questo termine, il datore ha dieci anni per chiedere la rendita vitalizia; se non lo fa, il lavoratore può intervenire personalmente nei successivi dieci anni, con la possibilità di chiedere anche un risarcimento del danno. E se trascorrono pure questi venticinque anni complessivi? A quel punto entra in gioco la novità del 2025: il lavoratore può comunque pagare di tasca propria i contributi mancanti per vedersi riconosciuto il periodo lavorativo, senza più limiti di prescrizione. Si tratta, evidentemente, di una soluzione estrema e spesso onerosa, ma che consente di non perdere definitivamente anni di contributi.
Il messaggio è chiaro: oggi la prescrizione non è più una barriera invalicabile, ma resta fondamentale controllare con regolarità la propria posizione contributiva. Un’attenzione in più, infatti, può evitare di scoprire troppo tardi un problema che rischia di pesare sull’assegno pensionistico di domani.