Giustizia, il voto scelta civile

Chi dice che "tanto non cambia nulla" sbaglia due volte: la prima perché qui non si tratta di cambiare i governi, ma di ridare dignità alla giustizia; la seconda perché quando non votiamo, decidono gli altri, e spesso non sono i migliori

Giustizia, il voto scelta civile

Il referendum sulla giustizia non è materia per azzeccagarbugli o professori di diritto costituzionale. Riguarda tutti, perché la giustizia è la prima cosa che entra nella vita di chiunque - e la più lenta a uscirne. Non è un tema del teatrino politico, anche se i politici se ne impadroniscono per litigare in tv. È un affare che pesa su ogni cittadino, su ogni impresa, su ogni famiglia che si ritrovi dentro una causa civile o penale. E questo referendum, che riguarda una legge costituzionale già approvata ma non a maggioranza dei due terzi, ci chiama a dire sì o no senza quorum: ogni voto pesa.

Chi dice che "tanto non cambia nulla" sbaglia due volte: la prima perché qui non si tratta di cambiare i governi, ma di ridare dignità alla giustizia; la seconda perché quando non votiamo, decidono gli altri, e spesso non sono i migliori.

Abbiamo già visto come va a finire quando i referendum si trasformano in plebisciti personali. L'ultimo, quello di Renzi nel 2016, naufragò non per i contenuti, ma per la superbia del promotore. La riforma era perfettibile, ma sensata: avrebbe semplificato il sistema istituzionale, riducendo il bicameralismo e dando stabilità all'esecutivo. Peccato che Renzi legò a sé stesso il destino del quesito, trasformandolo in un "o me o il caos". Vinse il caos, e lui se ne andò. Così un'occasione di riforma si dissolse in un'operetta personale.

Ancora prima, nel 2006, il centrodestra propose la riforma federale scritta da Calderoli e Tremonti, con la consulenza di un grande giurista come Luca Antonini, oggi vicepresidente della Corte costituzionale. Fu bocciata dalla sinistra, che allora governava con Prodi, usando l'arma della paura. L'Italia, se quella riforma fosse passata, oggi starebbe meglio: più autonomia, meno burocrazia, meno contenzioso. Ma i riformatori perdono sempre perché parlano un linguaggio troppo serio per un Paese che preferisce il gossip ai codici.

Eppure stavolta la questione è chiara: si tratta di separare le carriere dei magistrati, cioè di impedire che lo stesso soggetto possa, a seconda delle stagioni, passare dal ruolo di pubblico ministero a quello di giudice e viceversa. Un principio di civiltà già stabilito in teoria da quarant'anni, ma mai compiuto. La riforma costituzionale in voto prevede due Consigli superiori distinti: uno per i pm e uno per i giudici. L'indipendenza non diminuisce, aumenta.

Poi ci sono due innovazioni aggiuntive: il sorteggio dei membri dei Consigli (anziché l'elezione, che oggi ha prodotto fazioni e correnti degne di un partito politico) e l'istituzione di una Corte disciplinare autonoma, per giudicare i comportamenti scorretti dei magistrati. I critici sghignazzano: "Nessuno sceglierebbe per sorteggio il suo medico". Già, ma qui non si tratta di scegliere un chirurgo: si tratta di evitare che i giudici eleggano sé stessi come in una parodia della democrazia. Sorteggio non vuol dire caso, vuol dire libertà dai clan. Dalla Grecia classica a Venezia, è sempre stato lo strumento più democratico per evitare che il potere diventi parentela.

Sul fronte opposto c'è la magistratura associata, cioè l'Anm, che da cinquant'anni detta i tempi e i modi della giustizia italiana. È un sindacato unico, potentissimo, che in nome dell'autonomia è diventato un centro di potere. Lavora anche bene in molti casi, ma in altri decide chi sale e chi scende, chi si punisce e chi si promuove. Un'autogestione di fatto che spesso ha ridotto la magistratura a un partito, con tanto di correnti e congressi.

E non stupisce che proprio l'Anm (Associazione nazionale magistrati), insieme alla sinistra forcaiola e ai Cinque Stelle (che invocano la sicurezza dei giudici più di quella dei cittadini), si schieri compatta per il no. Se vincessero loro, avremmo assicurato per i prossimi decenni il dominio di una corporazione autoreferenziale: una specie di toga-litarismo, come ha scritto Piero Laporta, in cui la camicia nera è sostituita da una toga rossa, con la differenza che almeno Mussolini bonificò le paludi pontine, mentre qui si allargherebbe il pantano dell'ingiustizia. Non è uno scherzo. Chi vota no non difende l'indipendenza, difende lo status quo. Chi vota sì non fa un favore al governo, ma a sé stesso. È un atto di igiene civile. Non una rivoluzione, ma un inizio. "Piuttosto che niente, meglio piuttosto", dice la saggezza popolare.

Un ultimo pensiero va ai due formidabili giuristi che hanno sostenuto la riforma: Sabino Cassese e Giovanni Guzzetta. Cassese, novantenne come Gianni Letta, è l'antidoto all'idiozia giovanilista di certi populisti che disprezzano l'esperienza. Cassese spiega che la Costituzione, con questo referendum, non chiede di votare per o contro un governo, ma di giudicare una legge, un atto preciso, e basta. È la democrazia diretta, non il plebiscito.

La giustizia italiana è diventata troppo lenta, troppo politicizzata, troppo autoreferenziale. Nessuno pretende di rifarla da capo, ma almeno cominciamo a raddrizzare la barra. La vittoria del sì darebbe una scossa salutare e romperebbe il monopolio dei magistrati militanti.

Non è una battaglia di destra o di sinistra. È un test di civiltà. Chi ama la libertà vota sì. Chi preferisce la palude voti no, ma poi non si lamenti se a giudicarlo sarà sempre la stessa corporazione che non risponde mai di nulla.

Vittorio Feltri

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