"Sì alla separazione delle carriere": un'altra toga di sinistra a favore della riforma

Piero Tony, ex procuratore generale di Firenze, si accoda ad Antonio Di Pietro sul voto favorevole al prossimo referendum propositivo

"Sì alla separazione delle carriere": un'altra toga di sinistra a favore della riforma
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A sinistra si rinfoltisce il campo del Sì al referendum confermativo sulla giustizia. Dopo Antonio Di Pietro, Claudio Petruccioli, Goffredo Bettini, Enrico Morandi, Claudia Mancini, Giorgio Tonini, Vincenzo De Luca, Stefano Ceccanti ed Emma Bonino, a favore della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere a opera del ministro Carlo Nordio s'inserisce anche un'altra figura di spicco appartenente al mondo progressista: Piero Tony, ex magistrato che si è sempre definito come "certificato e autocertificato di sinistra". Dopo avere indossato la toga per circa 45 anni (dal 1969 al 2015), una volta andato in pensione non ha mai esitato nell'esprimere le proprie opinioni sul ruolo dei pubblici ministeri e dei giudici. E adesso, con un lungo editoriale sul Foglio, si schiera dichiaratamente a favore del disegno di legge che verrà sottoposto agli elettori nella prossima primavera.

"Credibilità e autorevolezza del giudice, condizioni necessarie per formulazione e accettazione di qualsiasi giudizio, nel nostro Paese sono in continuo calo. Non per caso o per sfortunata congiuntura, ma per lentezza e inconcludenza di tutto il sistema giustizia. Una ormai collaudata inefficienza, sempre più strutturale, perniciosa, tragica e preoccupante che pare giunta ormai al colmo. Così profonda da apparire quasi irrimediabile, vicina a un punto di non ritorno", scrive Tony, il quale ritiene che la separazione delle carriere costituirebbe il primo "grande ineludibile passo, quello che sarebbe stato necessario fare in sede costituente". In questo, invita i lettori ad analizzare le osservazioni di Calamandrei e Grassi sulla compromissoria formulazione degli articoli 101, 107 ultimo comma della Costituzione italiana.

Poi, arrivano le confutazioni delle argomentazioni utilizzate dai "signori del No": "Ripetete da sempre che un pm fuori dalla giurisdizione perderebbe la sua indipendenza e finirebbe inevitabilmente nella sfera dell’esecutivo, con ciò confermando di non avere neanche letto la riformulazione dell'art. 104 della Costituzione - dice l'ex procuratore generale di Firenze ricordando che l'autonomia dei magistrati è rimasta intatta nella recente revisione costituzionale -. Ripetete che queste idee sono figlie di noti massoni e politici pregiudicati, mentre con un minimo di obiettività potreste ricordare che la separazione delle carriere era auspicata, tra i tanti, dal costituente Piero Calamandrei e, più di recente, da Giovanni Falcone e dallo stesso Pisapia. E potreste non dimenticare, ex adverso, il guardasigilli fascista Dino Grandi e i suoi argomenti contro la separazione delle carriere".

C'è poi una ragione storica che renderebbe indispensabile suddividere i percorsi professionali di pm e giudici: il passaggio dal sistema processuale inquisitorio a quello accusatorio, avvenuto nel 1989 con il codice Vassalli-Pisapia. "Introdussero, tra squilli di tromba, la centralità dell'acquisizione delle prove nella dialettica dibattimentale, ossia nello scontro tra due parti, pm e difensore, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ma, a differenza di tutti gli altri Paesi con sistema accusatorio, si dimenticarono un corollario portante, ossia di separare la carriera del giudice da quella del pm". Così facendo, si è fatto sì che l'interesse punitivo dello Stato continuasse a "coabitare nello stesso appartamento del serafico imperturbabile giudice, nella stanza accanto. Stessa carriera nelle stesse stanzette degli stessi edifici in cui da sempre avevano esercitato e coltivato il rito inquisitorio, con il giudice che continua a giudicare l'operato del collega pm".

E, in tutto questo, non è bastata nemmeno l'introduzione della legge costituzionale del 23 novembre 1999, con la quale venne regolarizzato costituzionalmente il cosiddetto "giusto processo" mediante l'integrazione dell'art. 111 della Costituzione. Sotto il nuovo codice di procedura penale, infatti "l'inefficienza della giustizia perdura: perché quel codice è assolutamente incompatibile con un bradisistema giustizia come il nostro che bizantineggiando riesce per stranota tradizione a rinviare a giudizio solo dopo anni dal fatto - conclude Tony -.

Gli errori giudiziari hanno continuato a susseguirsi regolarmente, anzi spesso a incalzarsi. E oggi le ore necessarie per lo sputtanamento mediatico di una vita sono sempre meno, mentre sempre di più e sempre più incerti gli anni per una riabilitazione da assoluzione giudiziaria".

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